Beethoven dappertutto – Che mondo sarebbe senza Ludwig?
Il 29 marzo 1827 al funerale di Ludwig Van Beethoven – ex bambino prodigio di origine fiamminga, dalla vita complicata e affetto da sordità, la prima vera popstar a tracciare la strada di quella che è l’idea di musica “classica” fino ad oggi – al funerale di Beethoven, dicevo, parteciparono oltre ventimila persone. Una folla immensa anche per i tempi attuali: e il mito intorno al suo personaggio, che era già potentissimo mentre era in vita, da allora divenne sempre più grande.
Al riguardo è significativa l’orazione scritta da Franz Grillparzer e letta al suo funerale dall’allora celebre attore Heinrich Anschütz: “[…] egli ovunque è passato, tutto ha sentito. Chi verrà dopo di lui non continuerà, dovrà ricominciare, perché questo precursore ha condotto l’opera sua fino agli estremi confini dell’arte”.
Ogni dettaglio che lo riguarda diventa leggendario: addirittura sulle ultime parole di Beethoven sono state tramandate varie versioni. La prima narra che il compositore avrebbe sussurrato sul letto di morte: “In Cielo tornerò a sentire”. La seconda dichiara che l’artista abbia detto in latino “Plaudite, amici, comedia finita est – Applaudite, amici miei, la commedia è finita”. Infine, l’ultima versione afferma che un editore era andato a trovarlo portando in dono dodici bottiglie di vino, ma dispiaciuto Beethoven gli disse: “Peccato. Ormai è troppo tardi”.
Non ci importa sapere se siano vere: l’autenticità o meno di ciascuno di questi aforismi non modificherebbe in alcun modo il potere assoluto del personaggio Beethoven che ormai si è insediato nell’immaginario collettivo pervadendolo nelle più varie manifestazioni, sacre e profane.
E quindi non parlerò, nel festeggiamento dei duecentocinquant’anni dalla nascita, della sua vita tormentata di enfant prodige, del padre alcolista, degli studi musicali brillanti, del rapporto con Haydn, della celebrità e del favore dei potenti, del pessimo carattere che lo caratterizzò da sempre, della terribile sordità che lo condannò all’isolamento sociale e delle atroci cure che lo portarono, probabilmente, alla morte, degli amori misteriosi e infelici, della potenza della sua musica e del messaggio eroico, politico e umano che ha saputo dare, delle innovazioni stilistiche poderose che hanno catapultato la musica in una stagione tutta nuova, non più di maniera ma concentrata a descrivere le contraddizioni e le strade tortuose dell’anima, delle scelte di autonomia che hanno visto in lui il primo vero artista affrancato dalla sudditanza della corte, primo esempio di libero professionista, di lui illuminista e ingenuo ammiratore di Napoleone tanto da dedicargli la Terza Sinfonia la cui dedica egli strappa di fronte alla delusione dell’incoronazione. Non parlerò della maturità della sua musica, del procedere possente del suo pensiero e della sua ispirazione, così avanti rispetto ai tempi da far dire a Schubert “Egli può fare tutto ma noi non possiamo ancora comprendere ogni cosa…” Niente di tutto questo, l’hanno già detto tutti, e moltissimi altri ne parleranno con dovizia di particolari, e profonde e attente disamine dell’opera omnia dal primo accordo fino all’Inno Europeo.
Parlerò invece di tutt’altro, qui, per celebrarne la persistenza in ogni tempo – forte della “leggerezza” calviniana – e proverò a vedere quanto di Beethoven, del potente e geniale e infelice Beethoven, sia rimasto impigliato tra le maglie del quotidiano di ciascuno di noi – anche di chi non lo sa – dopo ben duecentocinquant’anni.
Un Beethoven così attuale da essere presente anche nei gesti più banali: se stiamo raccontando un episodio ad un amico e vogliamo sottolinearne il momento clou, è molto probabile che lo faremo accennando al motivo ‘ta-ta-ta-taaaa’ – che sono certa stiate cantando anche adesso – e che altro non è se non la Sinfonia n. 5 in do minore op. 67, quella che sempre l’immaginario collettivo identifica come “il destino che bussa alla porta”. E qualunque ragazzino appassionato di pianoforte ha sicuramente provato a scimmiottare con un dito, dal primo giorno di lezione, il povero tema massacrato da tutti di uno dei brani più famosi del globo, la Bagatella n. 25 Per Elisa. In tantissimi si sono fatti sedurre dal famoso tema e nella musica pop abbiamo ben due Passion Flower brani ispirati a Für Elise di Ludwig Van Beethoven: una dei Fraternity Brothers (1957), e una interpretata nel 1959 da Mina. Sapevate che la versione di Für Elise nota al giorno d’oggi è stata trascritta da Ludwig Nohl, lo scopritore del manoscritto autografo del 1810 andato stranamente perduto, la cui partitura fu pubblicata nel 1867, a quarant’anni dalla morte del compositore, e la misteriosa Elisa non è mai stata identificata realmente? Ma sono certa che la sua fama non conoscerebbe flessioni anche se non fosse autentica.
Come non sono autentici i titoli di molte delle composizioni più famose tra le sue 32 Sonate per pianoforte: la Patetica, l’Appassionata, la Sonata al Chiaro di luna, la Pastorale, ad esempio, sono titoli attribuiti da critici o editori a scopi puramente promozionali. Ma la loro grandezza è più che autentica e indiscutibile.
Sorte controversa ebbe la celeberrima Sonata n. 9 per violino e pianoforte, A Kreutzer, talmente potente e innovativa da ispirare la penna di Lev Tolstoj per il suo romanzo breve La Sonata a Kreutzer. Il protagonista Pozdnyšev racconta con queste parole la sua reazione all’ascolto della Sonata di Beethoven, causa di tutti i suoi guai: “…Questa Sonata a Kreutzer, il primo presto. Si può davvero suonare in un salotto, con signore che indossano abiti scollati, questo presto? Suonarlo e poi applaudire, mangiare un gelato e parlare dell’ultimo pettegolezzo? Queste cose si possono suonare solo in circostanze importanti, gravi, quando occorre compiere delle azioni significative, adatte a questa musica… Ma quando né il tempo né il luogo si addicono al tipo di energia e di sentimenti che sono stati suscitati e che non hanno via di sfogo, l’effetto può essere solo fatale; su di me perlomeno tutto ciò agì terribilmente, fu come se davanti a me si aprissero dei sentimenti completamente nuovi, delle nuove possibilità di cui non sapevo nulla fino ad allora…”
Una sonata eccezionale, definita dai giornali dell’epoca “stravagante e arbitraria”, che Beethoven scrisse in realtà per un violinista virtuoso, il meticcio George Bridgetower, allievo di Haydn e protetto dal Principe di Galles, vergando in italiano una giocosa dedica sul manoscritto originale: “Sonata mulattica composta per il mulatto Bridgetower, gran pazzo e compositore mulattico”. Ma nella pubblicazione indirizzò poi l’omaggio all’altro celebre virtuoso dopo la rottura con Bridgetower “a causa di uno screzio tra loro per una ragazza”: Kreutzer però non eseguì mai l’opera, che considerava“scandalosamente incomprensibile”, definizione sulla quale nel 1830, secondo Berlioz, “erano d’accordo 99 musicisti parigini su 100.”
Altra composizione celeberrima, che ha percorso un’altra strada per trovare l’immortalità nell’immaginario collettivo (almeno italiano) è la Romanza in fa maggiore Op. 50 per violino e orchestra, che i non più giovanissimi ricorderanno come la pubblicità televisiva del brandy “Vecchia Romagna” di qualche anno fa: in quel caso rivisitata con l’arrangiamento in versione pop del 1969 di James Last. Perché, bisogna dirlo, sono innumerevoli le composizioni diventate popolari per arrangiamenti più o meno “audaci”: è il caso di A Fifth of Beethoven nel mondo lontanissimo della disco anni Settanta. Walter Murphy e la Big Apple Band che si appropriarono della Quinta Sinfonia nel modo che possiamo ascoltare in una delle scene più famose del cult La febbre del sabato sera con il mito generazionale John Travolta/Toni Manero.
Si può certamente storcere il naso, eppure è stata una pietra miliare della discomusic: A Fifth of Beethoven nel suo essere un’opera singolare, racconta il rispetto e la deferenza che tutta la musica contemporanea tributa a Ludwig Van Beethoven (e il titolo è un gioco di parole tra la “Quinta” e il fifth, una misura equivalente a un quinto di gallone, usata soprattutto per i liquori). Sapete che anche Yngwie Mälmsteen, chitarrista talentuoso e famosissimo nell’ambito del neoclassical metal, ha eseguito alla chitarra una personale versione della Quinta Sinfonia? Cercatela in rete.
Tutto il cinema ha pescato a mani piene dal personaggio e dalla musica beethoveniana: ad esempio chiamando proprio Beethoven il cane protagonista del film commedia per famiglie del 1992 (e del suo sequel del 1993) diretto da Brian Levant. Ed anche – e cito velocemente – Misery non deve morire, Il discorso del Re, Big Fish, L’attimo fuggente, Il pianista, Rosemary’s Baby, Django Unchained, Equilibrium, Fantasia e Fantasia 2000 di Walt Disney, Arancia Meccanica, e molti, molti altri.
Ma il fascino sottile e potente di Beethoven è presente in moltissime altre forme d’arte: perfino nei fumetti. Charles Schulz, tra i suoi meravigliosi ed immortali Peanuts, ha creato il personaggio di Schroeder: silenzioso, ama suonare il suo pianoforte giocattolo, e ha una profonda venerazione per Ludwig van Beethoven di cui ogni 16 dicembre festeggia il compleanno. Sin dalla sua prima comparsa, Schroeder ha sempre suonato pezzi di musica classica con la bravura di un virtuoso, e in svariate vignette sono state utilizzati proprio estratti da vere partiture beethoveniane per pianoforte. Pare che l’idolo di Schroeder avrebbe dovuto essere Bach, ma Schulz preferì Beethoven perché “suonava più buffo”, e sopra il suo pianoforte compare spesso un busto con la testa del compositore che ormai è oggetto di culto.
Oltre al busto, nell’immaginario di tutti di sicuro campeggia il ritratto iconico di Ludwig van Beethoven dipinto duecento anni fa per mano di Joseph Karl Stieler, artista di corte dei re bavaresi: con la capigliatura grigio argento arruffata, la sciarpa scarlatta legata in modo disordinato, la partitura della Missa Solemnis in mano, ha plasmato l’immagine del compositore fin dalla sua creazione. Il quadro visse innumerevoli peripezie, fu addirittura rubato dai nazisti nella “Notte dei cristalli” per poi essere ritrovato e spedito in America. Oggi lo possiamo ammirare nella casa dove il compositore nacque duecentocinquant’anni fa, per ritrovarne il richiamo tra le serigrafie del 1987 di Andy Warhol, immortalato tra le più grandi icone pop di sempre, tra Marylin e Elvis. Abile nel far diventare qualsiasi cosa un oggetto di cultura popolare, Warhol ha trasformato il ritratto idealizzato di Stieler in una rock star nella serie di quattro serigrafie, sovrapponendo al volto le note della Sonata per pianoforte n. 14 Al chiaro di luna.
Ci sarebbero ancora mille cose – piccole e immense – da raccontare: Beethoven, il metronomo di Mälzel e il canone, Beethoven e le melodie dei canti popolari di tutta Europa, Beethoven e l’Inno alla Gioia, Beethoven e Wagner, Beethoven e i francobolli, Beethoven e il cratere su Marte, Beethoven e BTHVN, Beethoven e il mestiere del musicista, Beethoven e la malattia, Beethoven e il suo testamento, Beethoven, i capelli e il piombo, Beethoven e i Quaderni di conversazione, Beethoven e l’Inno della Rhodesia, Beethoven e l’amore, Beethoven e la politica, Beethoven e la libertà…
Troppe parole, mi fermo qui: ora serve la Musica.
Perché Ludwig Van Beethoven è il musicista più eseguito al mondo e nessuna parola, per quanto ben scritta, può parlare della sua grandezza come una sola delle sue note.
Buon duecentocinquantesimo compleanno, Beethoven.
E tanti auguri a tutti noi.
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