La fisarmonica? Amore e sofferenza

Eugenio Bennato al PIF 2021

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Eugenio Bennato - Pif 2021Il Premio Internazionale della Fisarmonica di Castelfidardo, nel corso degli anni si è fregiato della presenza di innumerevoli artisti, strettamente legati all’ambiente fisarmonicistico. Concertisti di ogni tipologia e genere musicale hanno animato l’auditorium, il teatro e le piazze cittadine, tanti ospiti di eccezione, proprio come quello scelto per l’inaugurazione di questa edizione 2021, che, pur avendo tracciato il suo percorso musicale con la bellezza delle sue canzoni, non ha mai rinnegato una certa simpatia proprio per la fisarmonica, che, come da lui dichiarato, ha in qualche modo segnato la sua infanzia. Il personaggio in oggetto è Eugenio Bennato, un totem della musica popolare, un’artista con oltre cinquant’anni di storia fortemente legato alle tradizioni e alla sua terra di origine.

Sei considerato una sorta di ambasciatore della musica popolare e della tradizione. Le tue canzoni denotano un forte legame con la terra di origine, un senso di appartenenza che trasuda emozioni e che, inevitabilmente, influenza il tuo ineguagliabile sound. Quali sono i musicisti che hanno maggiormente influenzato il tuo stile e il tuo modo di fare musica?

Il mio modo di fare musica è stato influenzato, inconsapevolmente, da molti personaggi, più o meno noti. Negli anni Settanta andavo ai concerti di musica popolare, anche nei luoghi più impervi e quegli artisti si stupivano del fatto che dei ragazzi fossero interessati alle loro performance e ai loro insegnamenti. Erano gli ultimi raggi di una luce che illuminava tutte le regioni del centro/sud Italia e, se oggi c’è ancora traccia della musica della tradizione, lo si deve esclusivamente a questi personaggi. Se invece facciamo riferimento ai volti noti, quelli del jet set musicale, mi vengono in mente tre nomi: il primo è Fabrizio De André, che tra l’altro sono andato a trovare dieci giorni fa proprio a Genova, nel museo di Via del Campo, dove mi hanno proposto di suonare la sua chitarra. Poi vorrei citare un grande della musica internazionale, João Gilberto, un artista che, proprio come De André, amava esibirsi anche solo voce e chitarra e infine, date le mie origini, non potrei dimenticare un maestro della canzone napoletana quale Roberto Murolo. Quindi, per completare la mia risposta, diciamo che la musica popolare ruota intorno a dei meccanismi di ideazione e di diffusione completamente diversi da quelli della musica leggera; alla base delle mie canzoni c’è stata, sì, una ricerca etnomusicologa, ma io ho seguito, prevalentemente, il filo della bellezza, cioè le cose mi piacevano, non ci sono schemi, non c’è nulla di intellettuale dietro ai miei brani.

Siamo ciclicamente bersagliati da pseudo proposte musicali figlie dei nuovi linguaggi che fanno breccia tra le preferenze degli adolescenti, anche se, soprattutto nel sud Italia, il legame con la musica del passato, mi riferisco soprattutto alle nuove generazioni, sembra non essersi mai interrotto. Cosa ne pensi del nuovo che avanza? Quale futuro per la musica popolare?

Vabbè… non vorrei essere severo e, come dire, conservatore, quindi, ben venga il nuovo che avanza perché è sempre stata così. La storia ci insegna… Quando io ho iniziato da ragazzo, quando fondammo la Nuova Compagnia di Canto Popolare, eravamo noi gli “innovatori”. Secondo me, non è questione di vecchio o di nuovo, è una questione di identità, perché il pericolo devastante che incombe sulla civiltà attuale è quello della globalizzazione, dell’appiattimento su un modello unico. Alla base, non vedo un problema di distinzione fra nuovo e vecchio, bensì tra ciò che ha una sua conformità e, quindi, una sua valenza internazionale, e quello che, invece, è pura imitazione. Prendiamo ad esempio i tanti talent show che monopolizzano le trasmissioni televisive… ci sono ragazzi bravissimi, ma quasi tutti afflitti da un’incapacità di affermare la propria identità. Quando qualcuno ci riesce viene fuori l’artista!

Il futuro della musica popolare? Non possiamo predirlo, dipende dagli artisti. Voglio dire una cosa… Quando io, insieme al caro Angelo (Carlo D’Angiò) scrivemmo Brigante se more, faccio un esempio, eravamo considerati dei trasgressori, sia per i contenuti del testo, sia per il fatto che identificavamo quella canzone come nuova proposta di musica popolare; ma la questione era questa: era un un’opera d’arte? Io posso dire, a distanza di anni, sicuramente sì, tant’è vero che il brano è diventato la colonna sonora di molte manifestazioni, al nord come al sud. Però ci voleva coraggio, allora, a dire “scriviamo cose nuove!”. Così come con Che il Mediterraneo sia, dove, parlando di Mediterraneo, ho messo insieme linguaggi diversi. Il futuro della musica popolare, la sua sopravvivenza è legata alla capacità, al talento della nuova generazione di artisti che, sulla scia degli standard del passato, affrontano nuovi temi e nuovi linguaggi. E oggi, di temi ce ne sono tanti!

Ho avuto il piacere di assistere a un tuo concerto a Spoleto (Briganti Emigranti, diversi anni fa) nella suggestiva cornice del Teatro Romano e quello che mi colpì, oltre chiaramente alla bravura di tutti i musicisti, fu l’esaltazione di un suono diverso da quello che generalmente esprimono la quasi totalità dei cantautori in circolazione. Sul palco c’erano corde di tutti i tipi, tra le quali la chitarra battente, la mandola e una miriade di percussioni così poco usuali tra le band degli artisti.

Bella domanda! Perché la scelta di strumenti poco usuali come la chitarra battente? Quella è stata una scoperta, la scoperta di uno strumento che rischiava di perdersi e che, invece, anche con un solo accordo, accende degli scenari inimmaginabili del nostro paesaggio e della nostra storia. È importante, a mio modo di vedere, essere legati a quei suoni, anche se, in tutto questo, non bisogna rinnegare la tecnologia e la modernità, ma quel sound, quello degli strumenti della tradizione, dev’essere il punto di partenza per scrivere la musica del futuro.

Ricordo benissimo quel concerto a Spoleto (nel 2010) inserito nella programmazione del Festival dei due Mondi, ma la mia prima esperienza, nella cittadina umbra, è stata nel 1972, con la Nuova Compagnia di Canto Popolare, segnalati dal grande Eduardo De Filippo, sempre per il Festival che, in quel periodo, era proprio straordinario, molto più di adesso devo dire… ahimé! Essere nel vivo di un incontro tra artisti multietnici, c’era Romolo Valli che dirigeva il Festival in quegli anni, assistere ai vari concerti, anche a quelli di mezzogiorno al Teatro Caio Melisso, era tutto molto emozionante. Ci sono tornato, con piacere, quarant’anni dopo e sono contento di aver lasciato un segno positivo, tu ne sei la testimonianza!

Ricordo di aver sentito poi, in quell’occasione, anche dei brani fortemente ispirati dalla cultura medio orientale e non solo dalla tradizione “nostrana”… Che musica ascolta Eugenio Bennato nelle pause di lavoro?

Il mio è un repertorio di musica varia. Devo dire, però, che le sonorità del Mediterraneo, cioè quelle della sponda sud comprese tra l’Algeria, la Tunisia e il Marocco, mi sono molto preziose, anche perché ritrovo in quei suoni, ma addirittura in quella lingua, un’eco delle nostre popolazioni costiere, dalla Calabria alla stessa Napoli e trovo assolutamente coerente l’utilizzo di queste “voci” anche per le mie canzoni. Ascolto molto quel genere di musica e visito spesso quei paesi dove ci sono tanti musicisti che sono, oramai, amici fraterni.

Qual è il brano, compreso nella tua discografia, al quale sei più legato e qual è, invece, quello che avresti voluto scrivere… ma l’ha già fatto un altro?!

Quello che avrei voluto comporre l’ha già scritto il mio caro amico Pino Daniele ed è Napul’è, la dichiarazione d’amore di un artista indimenticabile alla sua città, che è anche la mia… Quello al quale sono più legato è il prossimo, perché nonostante una lunga carriera, io continuo a fare cose nuove.

Sei ospite del PIF e la domanda è d’obbligo… Qual è la tua concezione della fisarmonica? Ho letto di un fantomatico trio con i tuoi fratelli Edoardo e Giorgio (costituito nel 1958) nel quale proprio tu ti accingevi a suonare lo strumento a mantice…

Il mio rapporto con la fisarmonica è di amore e sofferenza, perché la fisarmonica pesa sulle spalle e io, a dieci anni, stavo lì ore ed ore con questo strumento addosso. Nutro un grande affetto per la fisarmonica e mi hanno detto che a Castelfidardo me ne faranno trovare una. Ti confido che sto pensando ad un fuoriprogramma con dei fisarmonicisti per l’occasione…

Quanto è difficile affermarsi in un ambiente come questo? Che consigli daresti ad un giovane cantautore in erba?

Il mio consiglio ai giovani è quello di cercare di fare le cose che non sono mai state fatte. Questa è la funzione della nuova generazione e questo è quanto succede anche nella musica! Una melodia bella oggi è una melodia che non è mai stata ascoltata perché siamo sopraffatti da musica che si avvolge su sé stessa e che si ripete ciclicamente. Mi riferisco al pop, alla musica leggera… È difficile avere un’intuizione nuova, ma è proprio quello che il mondo si aspetta!

Ho letto della tua laurea in fisica… Chi sei fuori dal palco? Quali sono i tuoi interessi oltre la musica?

Allora… Sì, io sono laureato in fisica e devo dire che ho portato a termine questo percorso con una tesi molto complicata sulle energie alternative, ma, all’epoca, già suonavo in giro per il mondo. La fisica, diciamo, è un’esperienza straordinaria, da un punto di vista mentale e di capacità di ragionamento, di intuire le cose. Io, spesso, me la ritrovo come armonia dei numeri anche nella musica. A volte penso che la mia musica e la musica popolare, fatta di accordi semplici, circolari, abbia che fare con la struttura profonda della materia che sicuramente, se può essere definita in qualche modo al di là della meccanica quantistica e comunque circolare, è fatta di onde, di vibrazioni che si ripetono. È un discorso un po’ vago se vogliamo, ma, comunque, affascinante, come tutta la materia che ha sempre continuato ad interessarmi grazie anche alle tante nuove scoperte nel campo.

Tutti hanno un sogno nel cassetto, qual è quello di un artista affermato come Eugenio Bennato?

Di sogni nel cassetto posso dire di averne tanti… Quello che più mi sta a cuore, però, è la possibilità di lasciare un segno, un’impronta di tutte le cose che ho fatto e che continuoa fare. In realtà, questo si sta già materializzando e lo vedo nel corso dei miei concerti quando ragazzini, anche piccolissimi, cantano a memoria le mie canzoni, anche le più “assurde” come quelle che parlano di brigantaggio e immagino che quella storia, che cinquant’anni fa era emersa attraverso una canzone, possa nuovamente catturare l’interesse della storiografia e della cultura in generale. Sogno di fare ancora cose che lascino una traccia, che possano influenzare il pensiero delle persone, al di là del godimento musicale e che cambino un po’ il modo di vedere il mondo. È un sogno in grande, ovviamente, non è che sono così presuntuoso e megalomane, però, diciamo, visto che mi fai questa domanda, io ti rispondo così!