La visione artistica come il riflesso della propria dimensione umana
Il bandoneonista Simone Tolomeo crede che il pensiero artistico rappresenti una sintesi del vissuto personale
Bandoneonista per “caso”, compositore prolifico, sopraffino, brillante nel tessere trame armoniche sempre stimolanti, intrise di senso estetico, Simone Tolomeo è un musicista che respira l’arte vivendola in modo viscerale, mosso da una toccante sensibilità. Un’altra sua caratteristica ben definita è l’onnivorismo stilistico attraverso cui spazia da un genere all’altro, costantemente animato da una viva curiosità che gli consente di allargare i suoi orizzonti musicali a 360 gradi. Francese di stanza, Tolomeo si racconta dagli albori fino ad arrivare alle esperienze più importanti che hanno contrassegnato la sua vita.
Originario di Palermo, ti sei formato musicalmente studiando dapprima pianoforte e composizione, approfondendo la musica colta e il folk mediterraneo. Poi, totalmente per caso, hai scoperto il bandoneon recandoti in Argentina, esattamente a Buenos Aires. Qual è stata la scintilla che ti ha fatto innamorare proprio del bandoneon?
La scintilla è stata il caso, come spesso accade con gli incontri che cambiano la vita. Ero andato in un paesino della campagna bonaerense per vedere un pianoforte in vendita, ma purtroppo era in condizioni pessime, letteralmente in mezzo alle galline! In quello stesso momento, però, mi proposero anche un bandoneon. Non ne avevo mai visto uno prima: una sorta di piccolo organetto che mi incuriosì subito. Tra il fascino della scoperta, e una considerazione pratica, finalmente uno strumento che potevo portare con me in una di quelle valigette d’altri tempi: decisi di prenderlo. Così è iniziata la mia storia con il bandoneon. In realtà, in Argentina ho scoperto prima lo strumento e, solo dopo, il tango e la musica argentina. Come si dice, la vita è fatta di incontri.
Sei di stanza a Parigi. La Francia, dal punto di vista musicale, è un Paese molto più in fermento rispetto all’Italia e all’Argentina?
Credo che, culturalmente, né l’Italia né l’Argentina abbiano nulla da invidiare alla Francia in termini di fermento artistico. Tuttavia, quello che distingue proprio la Francia è il suo sistema culturale, molto più strutturato per sostenere la creazione artistica. Da un lato, il supporto dello Stato, dall’altro, il mecenatismo privato: due elementi che garantiscono un accompagnamento economico costante agli artisti. Questo non significa che ci sia necessariamente più fermento culturale, anzi: la storia ci insegna che molte opere d’arte sono nate proprio nei momenti di difficoltà economica. Ma è anche vero che, nel 2025, Parigi continua a essere un crocevia per musicisti di tutto il mondo. In una jam session puoi trovarti a suonare con artisti siriani, argentini, messicani, italiani, puoi collaborare con musicisti giapponesi e tedeschi su un progetto di musica colta, suonare musica brasiliana con coreani o eseguire tanghi con i russi. Al di là delle discussioni sull’appropriazione culturale, un ambiente del genere favorisce l’evoluzione artistica e facilita la nascita di nuovi progetti. Ma attenzione: questo vale per Parigi, non per tutta la Francia. Anche Buenos Aires, per esempio, è incredibilmente attiva dal punto di vista culturale, ma a volte la sua frenesia quotidiana rischia di nasconderne l’immensa ricchezza artistica.
Oltre a esibirti in tutto il mondo come bandoneonista, in contesti orchestrali e non solo, sei attivo in ambito teatrale. Il teatro è una dimensione che arricchisce e completa il tuo bagaglio artistico?
Esibirsi in teatro, scriverne le musiche e vivere l’esperienza scenica è qualcosa che amo profondamente e che arricchisce il mio percorso artistico. In questo contesto la musica diventa un elemento funzionale, quasi un’attrice comprimaria, dove gesto e parola prendono spesso il sopravvento. Il messaggio è globale, proprio come nel cinema, ma ciò che mi entusiasma di più è la dimensione delle arti dal vivo, dove ogni rappresentazione è unica, in continua evoluzione. Ogni giorno lo spettacolo cambia, migliora, si impreziosisce di piccole sfumature che rivelano qualcosa di nuovo su di noi, sulla nostra relazione con il pubblico. Quando alcuni grandi pensatori affermano che “la vita è teatro” (penso, ad esempio, a Shakespeare con Tutto il Mondo è un Palcoscenico), hanno ragione. Il teatro ci mostra che tutto è trasformazione, che anche le opere d’arte non sono mai mera finzione, ma strumenti per rivelare e ridefinire la realtà. Questo aspetto si riflette inevitabilmente anche sulla mia attività compositiva. Quando scrivo musica che non è funzionale a un’azione scenica, l’obiettivo ultimo rimane comunque la visione e la trasformazione della realtà: ogni nota ha un senso preciso. Lo stesso accade nell’interpretazione e nell’improvvisazione, dove ogni suono assume un significato profondo nel momento stesso in cui prende vita. È il momento in cui siamo più presenti a noi stessi, in cui emerge la nostra autenticità.
Sotto l’aspetto prettamente stilistico tendi a fondere svariati linguaggi musicali, dando vita a un vero e proprio melting pot. I tuoi studi di ingegneria civile e urbanistica, abbinati allo studio della musica, ti permettono di ampliare la tua visione artistica a 360 gradi?
Credo che la visione artistica sia semplicemente il riflesso della nostra dimensione umana in tutte le sue sfaccettature. Non siamo altro che il risultato delle nostre esperienze, delle idee che ci attraversano, di un pensiero che va ben oltre noi stessi. Siamo il prodotto di una tradizione, del conflitto, della ricerca di un senso nella società. È in questo spazio che si mescolano il canto gregoriano ascoltato per la prima volta in chiesa, il rock adolescenziale, il jazz, gli studi classici (Brahms, Beethoven, Chopin, Mozart), la scoperta di Bartók e Britten, ma anche le musiche popolari, il tango, il folklore argentino e latinoamericano in generale. Tutto è parte di tutto. Gli studi di ingegneria sono semplicemente un altro percorso attraverso cui ho cercato di comprendere il mondo. Anche lì, come nella musica, si ricerca la bellezza, si tenta di dare un senso alle cose. L’arte cerca la verità attraverso le sue infinite forme espressive, mentre la scienza lo fa attraverso l’analisi dell’oggetto. Ma alla fine, entrambe si pongono la stessa domanda, quella che l’essere umano si fa da sempre: perché siamo qui?
Focalizzando l’attenzione proprio su un genere musicale ben definito, c’è uno stile che ritieni più rappresentativo per te sul piano squisitamente tecnico e interpretativo?
Oggi, come interprete, mi sento un bandoneonista di musica popolare. Ma non solo di tango, almeno non in tutti i suoi stili. La passione che ho avuto a suo tempo per le sonorità di Pugliese e Troilo ha sicuramente lasciato un segno profondo nel mio modo di suonare. Tuttavia, la ricerca della libertà e dell’immediatezza nell’arte dell’improvvisazione mi ha portato non solo a conoscere Piazzolla, Saluzzi e altri grandi esponenti del folklore argentino, ma anche ad allontanarmene. Oggi esploro linguaggi diversi: la tradizione del jazz, le musiche popolari orientali, le sonorità dell’Europa dell’Est. Tutto ciò alimenta la mia ricerca espressiva. Tutto è in costante mutazione. Qualunque risposta darei oggi sarebbe solo una fotografia di qualcosa che continua a evolversi.
Il tuo ammirevole impegno nel divulgare e sostenere la musica contemporanea, oltre a valorizzare i nuovi talenti, ti identifica come una figura fondamentale per il processo di trasformazione del linguaggio musicale odierno. In cosa consiste esattamente questa sorta di “mission”?
Oggi, più che di una “mission”, parlerei di necessità. Scrivere musica ogni giorno è un bisogno ineludibile, una forma di sintesi del mondo che mi circonda. Non si tratta solo di un’espressione personale, ma di un’urgenza autentica: quando qualcosa brucia dentro, bisogna dargli voce. Se proprio dobbiamo parlare di una missione, allora direi che il mio obiettivo è ricucire il rapporto tra pubblico e musica contemporanea. Per troppo tempo, la ricerca di nuove grammatiche musicali portata avanti dai bouleziani e dagli eredi della scuola di Darmstadt, ha frantumato il legame con la tradizione fino a renderlo irriconoscibile. Così, anche il pubblico si è perso. Non credo in un ritorno alla musica neoclassica o alla riproduzione nostalgica del passato. Essa deve continuare a evolversi, ma non a costo di rinnegare le proprie radici. Creare una frattura totale tra passato e presente non è rivoluzione, è amputazione. Le radici nutrono gli alberi, li ancorano alla terra. Senza di esse, anche le piante più imponenti finiscono per cadere. E se cade l’albero, il pubblico smette di cercare la sua ombra.
Per quanto concerne il bandoneon, quale modello utilizzi in studio di registrazione e nei concerti?
Il modello che uso attualmente in studio e nei concerti è un AA del 1929. Prima di me è stato suonato dal bandoneonista Santiago Segret. Questo strumento mi permette di ottenere il suono caratteristico degli anni Venti e Trenta, che è quello che cerco per le mie performance. Ad ogni modo, sono alla ricerca di un nuovo strumento e ne ho già provati alcuni. Affaire à suivre (situazione da seguire, ndr).
Da qui ai prossimi mesi hai in mente di realizzare nuovi progetti discografici legati a dei concerti in programmazione?
Sì, al momento ho appena concluso la registrazione del mio quintetto per bandoneon e quartetto d’archi con l’ensemble ConTempo. In questo progetto non sono io a suonare il bandoneon, ma ho avuto l’onore di affidare questa parte a Carmela Delgado, una musicista di grande talento di cui mi fido pienamente per la sua sensibilità e la sua tecnica. È stata una scelta impegnativa lasciare una composizione di venticinque minuti nelle mani di qualcun altro, ma credo che sia un po’ come mandare un figlio a scuola: sei consapevole che qualcuno più preparato di te sarà in grado di fare un lavoro migliore. Al fianco di Carmela hanno partecipato anche Pierre Alvarez e Juliette Leroux ai violini, Robin Kirklar alla viola e Marie-Thérèse Grisenti al violoncello. Il brano dovrebbe essere pubblicato dopo l’estate e, se tutto va secondo i piani, lo presenteremo alla “Salle Cortot” di Parigi a novembre 2025. Un altro progetto in arrivo è la creazione di un concerto per bandoneon e ensemble d’archi, previsto per settembre. Mi sto riferendo solo a dei progetti legati appunto al bandoneon, ma ci sono anche altri lavori in programma. Per quanto riguarda il mio lavoro come interprete, quest’estate avremo una residenza creativa con il quartetto jazz fusion di Pablo Murgier per la registrazione di un nuovo album. La stagione di concerti è molto intensa e variegata: tra gli impegni principali, una tournée in Giappone ad aprile con Fernando Viani al piano e Machiko Ozawa al violino, lo spettacolo Tango Tano a Marsiglia, Les Trois Brigants in Marocco e diverse date con Otros Aires, con cui abbiamo appena realizzato un videoclip con Jovanotti. Per la musica colta, invece, ci sono concerti nei festival di Sanary e Amboise. Insomma, grazie a questo “organetto portatile” non mi faccio mancare nulla! E ci sono anche altri progetti in fase di sviluppo.
(Foto di Diego Pittaluga)