Francesco Guccini: “Il vero progetto è sopravvivere”

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Francesco Guccini

Ritenuto, insieme a Francesco De Gregori e Fabrizio De André, uno degli esponenti di spicco della scuola cantautoriale italiana, Francesco Guccini è l’emblema di una generazione di cantautori ancora oggi difficilmente replicabile. Autore di testi spesso assimilati a componimenti poetici, oggi costituisce materia di insegnamento nelle scuole quale esempio di poeta contemporaneo.
Dal suo esordio con l’LP Folk Beat n. 1 (1967) sono passati più di 40 anni. Dopo 23 album e 10 romanzi pubblicati, Guccini, “cresciuto tra i saggi ignoranti di montagna” è tornato ad abitare nella sua Pavana (“A una certa età si ha voglia di tornare da dove si è partiti”).

La sua carriera ha avuto inizio negli anni ’60, anche se il suo rapporto con la musica, con la composizione e con le prime canzoni nasce molto prima con l’acquisto di una chitarra fatta da un falegname di Porretta?

Si, una chitarra che non ho più perché anni fa, in un momento di crisi economica, l’ho venduta anche se, da quella chitarra, ne sono venute molte altre. A dir la verità, però, questo episodio che hai rievocato è avvenuto alla fine degli anni ’50 mentre, le canzoni di un certo tipo, le ho cominciate a scrivere molto più tardi.

Lei all’inizio ha avuto una serie di collaborazioni sia con i Nomadi, un rapporto che poi è continuato nel tempo e che con l’Equipe 84, anche se non proprio con Vandelli. La canzone Auschwitz ha portato per molto tempo la firma di Lunero e di Vandelli.

Si è vero, ma la collaborazione c’è stata perché conoscevo, essendo modenese anch’io, anche se allora abitavo già a Bologna, Vitto con cui ero molto amico. Tra l’altro abbiamo suonato insieme molta musica da ballo, come anche con Alfio Cantarella. Pier Farri, che era un altro nostro amico ed è stato anche un mio produttore discografico, veniva ogni tanto a casa mia a sentire se avevo qualche pezzo e presero Auschwitz. Il problema fu che io allora non ero iscritto alla SIAE e quindi il pezzo venne firmato da altri. Un altro amico di quei tempi, Dodo Veroli, era un arrangiatore dei Nomadi e così è nata la collaborazione con loro.

Lei, se non sbaglio, da circa trent’anni è in tour sempre con lo stesso gruppo: Ellade Bandini alla batteria, Ares Tavolazzi al basso, Vince Tempera alle tastiere e Juan Carlos “Flaco” Biondini alla chitarra. In una sua biografia scritta insieme al giornalista Massimo Cotto (“Un altro giorno è andato. Francesco Guccini si racconta a Massimo Cotto” – Ed. Giunti) lei racconta che tutto nacque nel 1983 da un’idea di Tavolazzi che propose di costituire un gruppo fisso.

Sì è stata un’idea di Tavolazzi ma, circa un anno e mezzo fa, Ares ha detto che voleva suonare solo jazz e quindi adesso abbiamo un altro bassista che si chiama Pier Luigi Mingozzi, che l’ha sostituito egregiamente. Dispiaciuti tutti e due, sia Tavolazzi che noi, ma lui ha deciso di suonare jazz, perché questa è sempre stata la sua passione e quindi ha smesso di suonare con noi.

Le sue canzoni, e so che questo a lei non piace molto, vengono spesso etichettate come politiche, mentre lei preferisce considerarle “canzoni esistenzialiste”.

Ma, diciamo più che altro canzoni senza aggettivi. Certamente non sono poesie, questa è un’altra cosa. La tecnica e il motivo per cui viene scritta una poesia sono diversi. Io non sono un poeta sono un autore di canzoni e non credo che ci sia un genere A e un genere B: si possono scrivere ottime canzoni o pessime canzoni, così come si possono scrivere ottime poesie o pessime poesie.

Quello che comunque rimane, seguendo i suoi concerti e che colpisce sempre molto, è la presenza di un pubblico composto da generazioni molto distanti accomunate da un sentimento di partecipazione e da un feeling molto intimo con le sue canzoni, capace di superare i limiti e i cambiamenti imposti dal tempo.

Ma si, questo è vero. Il fatto è che quando si va sul palco parte l’adrenalina e sale fortissima la voglia di dare al pubblico quello che il pubblico si merita.

Molte delle sue canzoni fanno riferimento alla sua storia personale, ai luoghi vissuti fin dall’infanzia. La sensazione è che il pubblico veda in questi suoi “racconti-cantati” un riferimento costante ad una società ideale, fatta di rapporti, di abitudini semplici, di dimensioni e spazi a misura d’uomo che oggi è più difficile ritrovare.

Ma sai…non è che io abbia vissuto chissà quali storie particolari. Il fatto è che le mie storie diventano poi le storie di tutti. Anche cercare qualcosa di ideale dipende dal tipo di storie che racconto, che sono storie quotidiane e questo fa parte del bagaglio di vita di tutte le persone.

Lei viene spesso considerato un cantastorie o, come ha scritto il giornalista Massimo Cotto un “contastorie”. È stato per molti anni insegnante e, più recentemente, ha intrapreso la “vita” di scrittore (N.d.A. Cròniche Epafàniche è stato pubblicato la prima volta nel 1989). Per essere una persona che non ha mai nascosto una certa predisposizione alla pigrizia non è male. La sua è una sorta di ozio creativo?

Diciamo che questi che hai elencato in realtà sono degli ozi lavorativi. La verità è che non mi sono mai dato molto molto da fare per le cose e, quindi, tutte le mie attività sono solo quelle che mi sono piaciute e che mi piace ancora fare. La fatica che provo e che vivo nel farle è veramente pochissima.

Nelle sue canzoni lei da molta importanza al testo. Lei stesso ha affermato più volte di leggere molti più libri di quanta musica poi realmente ascolti. Allo stesso tempo, come ricordavamo prima, i musicisti che sono da sempre con lei in tour sono tutti di prim’ordine. Quello che incuriosisce è quindi il rapporto tra musica e testo presente nelle sue canzoni.

Diciamo che nascono assieme, parallelamente. Una volta però ero io che da solo con la chitarra, o da solo con un chitarrista mettevo insieme musica e parole. Adesso naturalmente, lavorando con molti musicisti la cosa si è arricchita, in qualche modo si è completata.

Si dice che il testo di una canzone può considerarsi riuscito quando rimane celibe se letto in assenza della musica e che una canzone è davvero tale quando il risultato è superiore alla somma di parole e musica. Condivide?

Assolutamente si, è vero.

Lei è anche un ritrattista di luoghi. Pavana, ad esempio, è un luogo che ha influenzato molto quella che poi è stata la sua carriera.

Infatti sono cinque anni che sono ritornato ad abitare a Pavana. È come una missione compiuta…diciamo che il cerchio si è chiuso. Forse la città stimola di più e sicuramente ho vissuto esperienze che mi hanno aiutato. Ma alla fine qui non vivo in un posto isolato e, arrivato ad una certa età, si ha la voglia di tornare da dove si è partiti e di vivere più tranquillamente. E poi anche Bologna è molto cambiata in questi ultimi tempi e non potrei più ritrovare le cose che avevo una volta.

La generazione cantautoriale italiana di cui lei fa parte, è tutt’oggi un riferimento musicale importante per le nuove generazioni. Cosa pensa del panorama musicale italiano attuale?

A dire la verità non ascolto musica ultimamente, pochissima direi…quasi niente e quindi non so dire. Però, in realtà, cantautori della mia generazione ce n’erano pochi: De Andrè, che era del ’40 come me e Gaber che era del ’39 e purtroppo sono morti entrambi. Tutti gli altri sono in realtà degli anni ’50 e dieci anni di differenza, in questo mestiere qua, credimi fanno molto.

Ci sono dei luoghi comuni che in qualche modo l’hanno inseguita sempre negli anni della sua carriera: “Cantautore con l’eskimo” o il fiasco di vino che l’accompagna ogni volta sul palco. Quanto è difficile riuscire a trasmettere quello che si è realmente, anche per uno come lei che ha un modo molto aperto di interloquire con il pubblico?

Ma diciamo innanzitutto che queste magari sono frasi o clichè che inventano anche i giornalisti. Io cerco di evitare il più possibile questi clichè, non mi sono mai fermato a pensare di come poter essere o diventare un personaggio, di come poter lavorare attorno ad un personaggio.

Parlavamo prima del rapporto tra la musica e il testo. Esiste per le lei, nel momento della composizione, un interlocutore ideale a cui si rivolge?

L’interlocutore di solito è sempre l’autore stesso, a meno che in certe canzoni non decida di rivolgermi a qualcuno in particolare, soprattutto a personaggi femminili. Ma questo accade poche volte. L’autore quando usa una seconda persona si riferisce a se stesso secondo me.

Lei quest’inverno è stato in tour facendo un paio di concerti al mese.

Sì, più o meno.

Che progetti ci sono all’orizzonte? A quando il nuovo album?

Quando avrò canzoni da scrivere le scriverò. In realtà grandi progetti al momento non li ho. Il vero progetto è sopravvivere.