La sorprendente versatilità della fisarmonica
Intervista a Raffaele De Giacometti
Compositore, direttore di coro e d’orchestra, Raffaele De Giacometti, nato nel 1988, ha un curriculum davvero ragguardevole. A cominciare dagli studi presso il Conservatorio “Agostino Steffani” di Castelfranco Veneto, dove si è diplomato in composizione (vecchio ordinamento) nel 2013, con un anno di anticipo e con il massimo dei voti, e proseguendo con una «nutrita schiera» di commissioni ed esecuzioni in campo internazionale: Italia, Austria, Belgio, Cina, Croazia, Finlandia, Giappone, Irlanda, Regno Unito, Repubblica Ceca, Polonia, Spagna, Stati Uniti, Svezia.
Ecco, Raffaele, leggendo il tuo curriculum, la prima cosa che mi ha colpito è stata proprio la quantità dei tuoi lavori nonostante la giovane età. E, ancora di più, il fatto che il primo pezzo che riporti nel tuo catalogo – Sogno per piano solo – sia datato 2003: avevi appena quindici anni. E non si tratta di una tantum per quel periodo. Seguono, infatti, ben altre otto composizioni entro il 2006 – l’ultimo è Ave Maria per coro a cappella – anno in cui diventavi maggiorenne. Da che cosa era permeata la musica del Raffaele adolescente?
La tua è una domanda piuttosto complessa. “Da un’ingenua incoscienza” è la prima risposta che mi viene in mente e, forse per questo, la più autentica. Era il 2004, quando entrai al conservatorio per intraprendere gli studi di composizione. A undici anni, avevo iniziato con lo studio del pianoforte, ma mi trovavo spesso con poca voglia di applicarmi e con tanta voglia di improvvisare. L’espressione anglofona rende molto bene il concetto: Play the piano, letteralmente giocare (con) il pianoforte. Così, cominciai a fissare sulla carta alcune idee date da quelle improvvisazioni, chiedendo poi a mio padre – direttore di coro – di riprodurle. Dalle sue dita, però, ne usciva un qualcosa di completamente differente rispetto a quanto da me immaginato, ma di certo non per colpa sua, piuttosto perché – per fare il quadro della mia esperienza musicale di allora – consideravo i bemolli più simpatici dei diesis (per fortuna non conoscevo ancora alcun chitarrista!) e vedevo un 3/4, un 4/4 o un 6/8 come parte integrante dell’ispirazione del momento, anziché considerare il significato intrinseco della metrica. In sintesi, la musica era per me un insieme di tanti simboli grafici piuttosto interessanti da vedere! Sogno ha segnato la svolta: il potere di un innamoramento platonico giovanile è davvero sorprendente… La mia voglia di conoscenza e l’esigenza di precisione nella composizione diventavano sempre più pressanti. Decisi dunque di mostrare alcune delle mie partiture che consideravo “sensate” a dei musicisti (tra cui una Messa per solisti, coro e organo non riportata nel catalogo e la citata composizione per pianoforte solo), i quali mi consigliarono di approfondire lo studio dell’armonia. In quel periodo ascoltavo molta musica rinascimentale e barocca, ma non solo: detestavo Mozart, amavo Beethoven.
Andiamo ancora a ritroso nel tempo. Come sai, il nostro è un giornale specializzato nella fisarmonica da concerto e tu, per il nostro strumento, hai scritto Le tombeau de Josquin (Ars Spoletium, 2023) Tra un po’, parleremo di questo pezzo composto per un concertista che stimiamo moltissimo, Ivano Paterno. Prima, però, vorrei che raccontassi anche ai nostri lettori un aneddoto che a che fare con la fisarmonica e con la tua infanzia, e di cui mi hai accennato durante la nostra prima chiacchierata al telefono…
Sorrido. Ben prima che mettessi mano su un pianoforte, ricordo che in un armadio a casa di mio nonno (clarinettista nella banda del paese quando era giovane) c’era una fisarmonica giocattolo, con il mantice tutto distrutto e rattoppato con del nastro adesivo. Come facesse a emettere suoni quello strumento è un mistero! Ricordo che per gioco mi ci fiondavo spesso per ascoltare gli accordi che emettevano quei bottoni, ma le mie performance non erano da tutti così gradite e dovevo letteralmente chiudermi in stanza! Il caso vuole che, molto probabilmente, sia proprio la fisarmonica a rappresentare il mio primo contatto con uno strumento musicale.
Credo che i nostri lettori saranno divertiti e inteneriti da questo tuo ricordo d’infanzia. Ma torniamo alla tua musica. Oggi, ti esprimi attraverso il coro (prevalentemente), strumenti soli, piccoli ensemble, orchestra, elettroacustica… C’è, però, un elemento, una «materia» dominante nella tua ricerca musicale?
Sono molto legato alla natura e all’acqua, molte delle mie composizioni portano titoli a esse associate. La mia musica però non deve intendersi in senso descrittivo o meramente rappresentativo, piuttosto speculativo. “La musica esprime l’inesprimibile all’infinito” asseriva Debussy, e questo non dipende da un fattore estetico. Ogni elemento extramusicale e perfino ogni tecnica compositiva sono per me il pretesto della composizione, non il fine. In alcune mie composizioni a prevalere è ora il ritmo, ora la ricerca timbrica, ora la costruzione e l’autogenerazione di armonie… il tutto poi contribuisce alla creazione della forma. Alle volte è vero proprio il contrario, dove è la forma a suggerire il contenuto, come per esempio nel brano corale Otra canción (2020), basato su una poesia di García Lorca in cui l’interessantissima struttura poetica unita a una toccante liricità hanno fatto da volano alla composizione.
I compositori della cui lezione ritieni di aver fatto maggiormente tesoro e che ritieni essere più «presenti» nella tua musica…
Ho una grande stima di quei compositori che nel corso della loro vita hanno saputo (o sanno) mettersi in gioco rinnovando il loro linguaggio, allontanandosi dalle “certezze” che hanno conferito loro fama e abbracciare così l’ignoto. Un esempio fra tutti, Stravinsky. Dovrei citare molti altri compositori, mi limiterò a J.S. Bach, Debussy, Ravel, Schnittke… Pur non avendo una particolare attinenza con la mia musica, fra i contemporanei mi incuriosiscono parecchio Esa-Pekka Salonen e John Adams.
Tra i tuoi Maestri c’è Mario Pagotto. Nel libretto di un suo album, Dove dimora la luce e musica da camera (Velut Luna, 2002), Paola Maurizi scrive che “dopo la caduta dei divieti musicali dei decenni precedenti, per merito storico dei neoromantici negli anni Ottanta, e superata definitivamente, con il crollo del muro di Berlino, la contrapposizione estetico-ideologica tra un linguaggio comunicativo, attento al pubblico, e un linguaggio impegnato, che chiedeva sacrificio di comprensione, chi ha iniziato a comporre negli anni Novanta, come Mario Pagotto, ha potuto cercare con naturalezza la propria strada espressiva all’interno di uno spettro culturale assolutamente diversificato […]”. Insomma, erano finite le sentenze senza appello somministrate dai Nono e dagli Stockhausen a chi si sottraeva alle «leggi» di Darmstadt… Tu appartieni a una generazione diversa da quella di Pagotto, ma ti riconosci ugualmente in questa definizione? Oppure ti senti legato a una qualche particolare «scuola di pensiero» musicale?
Trovo difficile oggi parlare di «scuola di pensiero». L’individualismo è un tratto distintivo della società in cui viviamo. Sembrano esistere tante forme espressive quanti sono gli artisti. Internet ha poi reso il mondo sempre più piccolo e basta un click per entrare in contatto con la musica più diversificata. Eppure – appare quasi un controsenso – in così tanto individualismo, come non riconoscere comunque un’interconnessione sociale che contribuisce al così diffuso eclettismo artistico! Un pastiche espressivo, insomma, che fa dei modelli archetipici un eco distorto, all’insegna di nuove originalità. Mi trovo d’accordo con quanto affermato da Paola Maurizi, precisando però che la generazione di Pagotto dovette fronteggiare ancora parecchi pregiudizi dalla morente “vecchia scuola”. Perfino negli anni Novanta, trovare la propria strada non era affatto così semplice e “naturale” come si può immaginare. Mario Pagotto è stato molto determinato in ciò, e lo ammiro non solo per la sua musica, ma anche per la sua grande umanità e capacità di trasmettere le sue conoscenze in supporto alla naturale inclinazione estetica dei propri allievi. Aver avuto lui, Nicola Straffelini e Gianmartino Durighello fra i miei insegnanti, ciascuno con delle caratteristiche distintive, è stata una grande fortuna.
Sempre studiando il tuo catalogo, mi sembra di non aver scorto una predilezione particolare per uno strumento o per una classe di strumenti. Che cosa ti guida nella loro scelta, allora?
Sono spesso le commissioni a determinare l’organico di una composizione. Amo scrivere per archi, ma trovo ugualmente stimolante interfacciarmi con qualsiasi altro tipo di strumenti. C’è sempre molto da imparare e, a tal proposito, confrontarsi con gli strumentisti è oltremodo arricchente. Tendo a una scrittura idiomatica e dunque anche l’organico incide significativamente nel carattere e nelle sfumature dei miei brani.
Ho ascoltato tutti i tuoi lavori reperibili in rete e li ho sinceramente apprezzati. Mi piacerebbe che ci soffermassimo su due di essi, che hanno toccato in particolar modo alcune mie corde sensibili. Parlo di Pato, Pato! (2017) per quartetto di fagotti, e di Foglie d’acero (2018) per quartetto di sax (soprano, alto, tenore e baritono). Nel primo mi sembra di aver colto qualche eco del Sacre di Stravinsky (che Dio l’abbia in gloria!)…
Touché! All’epoca della loro composizione mi trovavo a Glasgow per gli studi di direzione d’orchestra. È stato un periodo davvero speciale, sia dal punto di vista umano che professionale, tanto da influenzare il mio stile compositivo. Avevo le partiture di Stravinsky sempre sotto gli occhi, ottima palestra per i direttori! Una preparazione direttoriale cambia radicalmente l’approccio alla composizione. Quando si compone si ragiona nei panni del direttore, quando si dirige ci si immedesima nel compositore. Quando l’uno e l’altro sono la stessa persona, le attenzioni non sono mai abbastanza. Come non ricordare Mahler che, prevedendo un accelerando non voluto ma fisiologico dell’orchestra, in alcuni punti specifici delle sue sinfonie soleva indicare Nicht eilen…! Pato, pato! è un brano che composi per Genovia Quartet. Il carattere molto scherzoso e ritmico si associava allo spirito del gruppo, all’epoca formato da due ragazze spagnole e due scozzesi. Mentre componevo mi sembrava di rivedere la scenetta (disponibile su YouTube) di Stravinsky seduto al suo pianoforte intento a divertirsi nel ribattere il famoso accordo degli Auguri primaverili. Foglie d’acero, invece, mi venne commissionato dal MAC Saxophone Quartet per il 18° Congresso Mondiale dei Sassofonisti che, nel 2018, si tenne a Zagabria. Iniziai la composizione in autunno, quando i viali pedonali di Glasgow si coprivano delle foglie cadute dagli alberi adiacenti e il loro odore contrastava quello del traffico di città… Anche in questa partitura sfrutto molto la ritmica, ma il carattere generale del brano è introspettivo e mesto. Insomma, un brano tanto allegro quanto gli scozzesi nei periodi in cui si fa notte alle tre del pomeriggio!
Ho notato la presenza di temi sacri in diversi brani – tutti per coro – di cui sei autore: Agnus Dei, Cantate Domino, Puer natus (2005); Ave Maria (2006); Stabat Mater (2010); Ave Maria on the Enigmatic Scale (2013); O magnum mysterium (2021). Spero di non averne dimenticato qualcuno. Qual è il tuo approccio al Sacro e come si traduce nella tua musica?
Ho sempre trovato molto affascinante musicare testi in latino, anche in altre lingue per la verità. Probabilmente, ogni brano che ho composto, a prescindere dall’organico, è scaturito direttamente o indirettamente da un testo, un libro o una poesia. Come dicevo prima, però, ogni elemento extramusicale rappresenta per me il pretesto della composizione, testi inclusi. Il mio approccio a un testo sacro è quello di desacralizzarlo per risacralizzarlo. Mi spiego: dicevo che la mia musica non è “descrittiva”. L’approccio è quello di una speculazione trasversale del testo, ovvero lascio che le parole si combinino a immagini, sensazioni e percezioni che non hanno necessariamente a che vedere con il significato originale del testo, ma contribuiscono a delineare un nuovo profilo espressivo che indirettamente si traduce in musica. L’uso di certe tecniche compositive piuttosto che altre, la struttura di un brano, le polarizzazioni, etc. sono tutti aspetti subordinati alle circostanze che emergono da questa speculazione.
Insegni Teoria, Ritmica e Percezione Musicale al Conservatorio “Agostino Steffani” di Castelfranco Veneto, lo stesso Istituto presso il quale ti sei formato. Mi spieghi in che cosa consistono gli studi di “Percezione Musicale”? Così, di primo acchito e per un mio particolare interesse verso la materia, mi viene da pensare all’approccio delle neuroscienze cognitive nei confronti della musica. Ma non credo che si tratti di questo…
Se lo chiedessi ai miei studenti penserebbero lo stesso… Teoricamente dovrebbe essere qualcosa di meno cervellotico! Sintetizzando, la percezione musicale potremmo anche chiamarla Ear Training (“allenamento dell’orecchio”), disciplina volta allo sviluppo dell’orecchio musicale, e consiste per esempio nel riconoscimento e nella trascrizione di intervalli, triadi, quadriadi, accordi estesi, successioni armoniche, scale tonali e modali; dettati polifonici, intonazioni vocali secondo i vari temperamenti, ascolti musicali finalizzati al riconoscimento di timbri, impasti sonori, forme, strutture, ritmi, periodi storici…
E veniamo, finalmente, al tuo pezzo per fisarmonica: Le tombeau de Josquin, composto per un album di Ivano Paterno, Dans l’ombre de Josquin (Ars Spoletium, 2023), dedicato a Josquin Desprez, straordinario compositore franco-fiammingo, vissuto a cavallo tra il XV e il XVI secolo. Raccontami, innanzitutto, di com’è nata la committenza.
Ricevetti inaspettatamente una telefonata da Ivano che con grandissimo entusiasmo mi enunciò il suo progetto, chiedendomi se volessi parteciparvi con la composizione di un breve brano per fisarmonica di circa due minuti. Conosco Ivano da quando ero studente al conservatorio, ma non avevo mai collaborato con lui professionalmente prima. Ricordo che rimasi spiazzato: da un lato volevo cimentarmi nel lavoro, dall’altro ero un po’ preoccupato non avendo che delle minime conoscenze circa le enormi potenzialità che la fisarmonica può offrire. Sentivo però Ivano molto sereno e fiducioso in merito e tra me e me dicevo che, in fondo, si trattava solo di un paio di minuti di musica… Alla fine ci presi gusto e i minuti diventarono cinque.
E com’è proseguito il lavoro con Ivano Paterno? Che tipo di scambio c’è stato fra di voi?
La pazienza di Ivano non ha confini, al pari della sua meticolosità dedita all’interpretazione dei brani, dove nulla viene mai lasciato al caso. Ivano mi ha fornito descrizioni dettagliate dello strumento, dei suoi registri e delle sue possibilità, precisando però che ci sono anche molti tipi differenti di fisarmonica e alcuni passaggi o combinazioni accordali relativamente semplici in un modello, potrebbero non esserlo in un altro. Puoi immaginare la mia felicità nel sapere tutto questo… Combinai così le sue informazioni con la mia esperienza basata sulla scrittura per pianoforte. Terminato il lavoro lo mandai a Ivano chiedendogli se quanto composto fosse eseguibile con il suo modello di fisarmonica. Fui molto felice nel sapere che funzionava praticamente tutto, giusto qualche accorgimento in merito a una successione di accordi.
Che relazione c’è tra il tuo brano e la musica di Josquin Desprez?
Per la mia composizione mi sono basato sul suo famoso lamento Nymphes des bois, da lui composto in occasione della morte di Ockeghem. La modernità di Desprez è davvero sorprendente: il frammento da me utilizzato “Josquin, Perchon, Brumel, Compère” è di fatto una progressione discendente. Detto così sembra una cosa naturalissima. Tuttavia, a differenza del Barocco musicale, nel Rinascimento le progressioni venivano assolutamente evitate dato che la loro struttura non offriva indipendenza alle parti. Desprez la utilizza qui come madrigalismo, simboleggiando il lutto, il pianto. Non solo, in fase cadenzale vi è perfino una falsa relazione! Ogni volta che ascolto questo passaggio rimango sbalordito. Partendo da questa sua “progressione” ho, dunque, costruito una serie di brevi variazioni utilizzando elementi caratteristici del cante jondo andaluso, linee melodiche di stampo brahmsiano (cito un frammento dal suo Ein deutsches Requiem) e ritmi che fanno eco a Bartók e Stravinsky. Ciò a rappresentare come un semplice eppure magnifico gesto musicale dell’illustre compositore franco-fiammingo possa risuonare vivido e moderno attraverso i secoli.
Al termine di quest’esperienza, vorrei conoscere le tue impressioni sulla fisarmonica. Che cosa hai scoperto del nostro strumento? Che cosa ti ha sorpreso maggiormente?
La fisarmonica è molto versatile e, pur non essendo così frequente negli ensemble, il suo timbro ben si presta alla combinazione con qualsiasi altro tipo di strumenti. Nel mio brano ho sfruttato una minima parte del suo potenziale, ma chissà, magari ci saranno altre occasioni… Mi ha sorpreso scoprire che alcune cose apparentemente fattibili e semplici possono in realtà risultare problematiche da realizzarsi con la fisarmonica. Viceversa, altre situazioni, come per esempio suonare certi intervalli armonici ampi che per un pianista prevedrebbero un allargamento della mano impossibile se non ti chiami Rachmaninov, possono essere molto semplici per un fisarmonicista. Infine, fra gli altri aspetti, sono rimasto molto sorpreso dall’espressività di Ivano e dal modo in cui riesce a dare l’impressione di differenziare le dinamiche fra una tastiera e l’altra, pur non essendo ciò realmente possibile con una sola fisarmonica.
Con quali altre potenzialità espressive della fisarmonica ti piacerebbe confrontarti?
Vorrei approfondire le tecniche estese dello strumento e comprendere ancor più nello specifico perché alcune cose siano più o meno realizzabili.
Su che cosa stai lavorando attualmente?
Non sto lavorando a una composizione nello specifico in questo momento, ma sto raccogliendo idee che conto di sfruttare prossimamente.