State of mind – Il nuovo progetto discografico di RIO in uscita su tutti i digital store

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Rio - copertina discoState of mind, un progetto artistico votato all’amore, l’amore per la vita, per la musica. Un sentimento innato amplificato anche da questa emergenza planetaria Covid che ha messo a nudo tutte le nostre certezze e le nostre debolezze, uno stato d’animo che ha ispirato, tra gli altri, poeti, musicisti, registi e che condiziona tutta la nostra esistenza. C’è tanto bisogno d’amore nella nostra quotidianità per fare fronte a tante difficoltà, ma anche per beneficiare di una produzione musicale come la tua, finemente elaborata ed interpretata…

Ti rispondo partendo dalla bella introduzione della tua intrigante intervista.
L’amore: State of Mind è un brano che ho dedicato ad un amico che non c’è più, Bruno De Matteo, con il quale, un giorno di tanti anni fa, ci divertimmo ad improvvisare, io con la chitarra e lui al piano, qualsiasi cosa ci passasse per la testa. Senza volerlo inventai una melodia che a lui piacque cosi tanto che ritmava le risposte cantandole. Ora, sul disco sono eseguite dai fiati. In seguito, completai il brano ma lui purtroppo non ebbe mai il piacere di ascoltarlo.
If You Let Me Say è l’ultimo brano scritto e inserito in ordine di tempo nel disco, che ho dedicato all’amore della mia vita.
Don’t Give Her Pain è una dedica a tutte le donne che vivono accanto ai loro uomini che hanno intrapreso la via senza uscite dell’alcolismo e che, nonostante tutto, non rinunciano all’amore per essi. Però, il protagonista di Don’t Give Her Pain, mentre racconta dei suoi deliri di alcolizzato, in un momento di lucidità, chiede a Dio di aiutarlo affinchè metta sul cammino della sua donna un altro uomo che non le dia dolore.
Potrei continuare citando gli altri brani e il loro contenuto, ma sarebbe inutile poiché il motivo centrante di tutto l’album è l’amore. E non solo dell’album, ma anche del mio modo di interpretare la vita.

Un curriculum di tutto rispetto forgiato da esperienze significative con professionisti quali Tony Esposito, Gianni Bella, Gino Paoli, ma io, ad essere sincero, ascoltando le tracce del disco non riesco ad abbinare il tuo stile a quello di questi artisti. C’è qualche contaminazione particolare nella tua musica?

Per rispondere alla tua prima domanda, ti dico che hai pienamente ragione sul fatto che le mie contaminazioni musicali hanno poco a che vedere con gli artisti con cui ho collaborato, tranne ovviamente i Sold Out, ma l’interscambio culturale ha portato in dote un contributo interessante sia alla loro musica che al mio personale arricchimento di generi e di nuove vedute.
Da piccolo ascoltavo i Platters, Stevie Wonder, Tom Jones, Donny Hathaway, etc. e la mia formazione musicale e vocale è avvenuta grazie a questi grandissimi artisti.

Un progetto elaborato in tre diversi studi di registrazione (Napoli, Miami e Palinuro). A cosa è dovuta questa scelta esecutiva?

Per quanto riguarda la scelta dei vari studi di registrazione, il motivo è sempre quello: la qualità, innanzitutto. Sergio Orso, l’organista di molti dei pezzi dell’album, vive a Miami, ma questo non ha interferito con l’intenzione di averlo ad ogni costo nel disco. Il suo mondo di suonare è unico e corrisponde in maniera luminosa alle mie aspettative nella costruzione di un brano che esige l’organo.
Gino D’Ignazio, il mio produttore artistico, vive a Palinuro (SA) e ha uno studio di registrazione immerso nel verde. Immagina Palinuro nei mesi che vanno da ottobre a maggio: il silenzio e un panorama mozzafiato sono stati gli elementi essenziali che hanno reso questo progetto un momento magico e davvero irripetibile.

Un sound particolarmente acustico, un “connubio” di corde molto ben armonizzato a dispetto delle tendenze attuali che vedono prevalere l’utilizzo di campioni e groove precomposti. Una scelta, la tua, che esalta l’abilità dei musicisti piuttosto che “l’elettronica” di cui spesso si fa (ab)uso sui dischi di qualche giovane emergente. L’esperienza conterà pure qualcosa…

Per quel che riguarda l’uso di strumenti acustici, questa era una tappa obbligata. Impossibile pensare di armonizzare questo genere di brani con strumenti elettronici, anche se, l’unico pezzo con queste caratteristiche è If You Let Me Say, che ho composto e realizzato in fase di missaggi con la collaborazione negli arrangiamenti di un grande musicista quale Giorgio Savarese. Proprio perché non c’era piu tempo per tornare in sala di registrazione, tranne le chitarre suonate da Aurelio De Stefanis e le tastiere suonate da Savarese, il basso, la batteria e gli archi sono stati realizzati con l’uso di strumenti elettronici.

Maurizio De Franchis, in arte RioTra le tante esperienze da segnalare anche un Sanremo con la band di Tony Esposito (tua la voce solista del brano Sinuè). Qual è la tua opinione sul Festival della Canzone Italiana o meglio, sulle edizioni più recenti dello stesso?

La mia opinione sul Festival di Sanremo non cambierà mai. La musica è una delle forme d’arte più nobili e non va concepita come uno sport dove agiscono dei competitori con un vincitore e uno sconfitto. Sarebbe opportuno, secondo me, eliminare la gara e lasciare che il pubblico manifesti il suo gradimento scegliendo e magari comprando sul web, una canzone piuttosto di un’altra.

Da i Bandanà e i Sold Out passando per Paoli, Esposito fino ai giorni d’oggi… È cambiato un po’ tutto, dai sistemi di registrazione (analogico/digitale) al linguaggio musicale, per non parlare del messaggio che arriva da certe canzoni. Le nuove generazioni ci chiedono di adeguarci, ma sono gli stessi giovani che, molto spesso, si rifugiano nell’ascolto di qualche celebrità del passato. Quale futuro per la musica cantautorale?

Passando da i Bandanà sì, ma non da Gino Paoli con il quale non ho mai collaborato. Le uniche volte che ho avuto a che fare con lui sono state quando ho seguito per un po’ la mia band che lo accompagnava nei concerti.
Il futuro per la musica cantautorale è piu roseo di quanto oggi appaia. Tutte le forme d’arte hanno attraversato, e attraversano, periodi luminosi e periodi bui. Io credo nei giovani. Se non oggi, di sicuro troveranno presto le chiavi che aprono all’ispirazione di un nuovo e più qualitativo percorso musicale.

C’era una volta l’LP, il 33 giri, il CD e adesso la playlist di Spotify… Paradossalmente, anche con tanta tecnologia, per un bravo artista, forse, era più facile farsi apprezzare nel passato. La rete ti offre una visibilità planetaria, ma, al tempo stesso ti colloca in un pentolone comune dal quale non è facile emergere…

C’era una volta è l’inizio di quasi tutte le fiabe e come le fiabe gli anni del vinile, del 45 giri etc è stato un momento meraviglioso della musica, che ha segnato i nostri anni proprio come segnano le fiabe.
Viviamo nel pieno di un cambiamento epocale al quale bisogna assolutamente adattarsi e prendersi rischi e pericoli che questo comporta, ma, alla fine, è sempre la qualità di un brano a farsi sapere ascoltare.

Napoli, culla della canzone neomelodica. Hai “rinnegato” le tue origini partenopee per proporre un disco in inglese, una scelta dettata, credo, dal mercato internazionale. Avremo occasione di riascoltare a breve la tua bella voce in un nuovo disco, magari in lingua… originale?

Accetto la tua provocazione, ma ti assicuro che non ho rinnegato le mie origini: come potrei? La mia Napoletanità è un valore inestimabile di cui vado fiero e che ho sempre portato con me in ogni angolo del mondo in cui sono stato. Ci vuole coraggio e consapevolezza dei propri mezzi, oppure follia, per decidere di esprimersi in un’altra lingua su un campo dove ci sono artisti di enorme spessore e un pubblico esigente e preparato come quello inglese e americano. Nel mio repertorio ho un pezzo, Dio e niscuno e conto, un giorno, di inserirlo in un album “Soul” interamente in lingua napoletana.
Nel complimentarmi con te per la qualità della tua intervista, ti lascio i miei piu cordiali saluti.

 

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