Tradizione e modernità convivono nel Torino Jazz Festival 2019

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Pieranunzi - Tavolazzi - ZirilliCi sono tante (forse troppe) rassegne di jazz nel nostro paese.
Ma, in linea di massima, seguono due schemi organizzativi diversamente perdenti.
Ci sono i festival che mantengono la parola “jazz” solamente nel titolo abbandonando, però, la ricerca musicale in favore di scelte smaccatamente commerciali per ottenere un facile riscontro dal grande pubblico.
Altre, invece, per preservare la purezza nella programmazione si rinchiudono in una nicchia senza riuscire ad incidere in maniera significativa.
Il Torino Jazz Festival è un’altra cosa.
Grazie alla capacità della Direzione Artistica (non a caso gestita da due valenti musicisti jazz come il sassofonista Diego Borotti ed il trombettista Giorgio Li Calzi), al sostegno convinto della Città di Torino e della Fondazione per la Cultura ed al contributo economico degli sponsor la rassegna si conferma una delle più interessanti nel panorama italiano.
Sono tanti i pregi della programmazione e, fortunatamente, la stampa specializzata e generalista li ha messi in evidenza negli articoli apparsi in queste settimane: 80 concerti (di cui 70 gratuiti ed altri a prezzi accessibili), il fatto di investire sulla città utilizzando teatri e club ed alternando grandi nomi e musicisti locali sempre con la volontà di proporre progetti originali evitando passerelle fini a sé stesse.
Ed il pubblico, sempre numeroso ed attento, ha risposto con entusiasmo smentendo la favoletta (propugnata dai fautori dei festival commerciali) secondo cui il jazz sia una musica scarsamente attrattiva.
Abbiamo avuto la possibilità di seguire la giornata del 30 aprile segnata dalle esibizioni di Enrico Pieranunzi con Ares Tavolazzi ed Enzo Zirilli al Conservatorio Verdi, nel pomeriggio, e dai concerti serali del progetto Siwan di Jon Balke e del trio di Joshua Redman alle O.G.R.
Il trio italiano ha dimostrato un notevole interplay e la gioia di suonare insieme che 15 anni di attività comune, seppur saltuaria, non sembrano in grado di intaccare.
L’iniziale “My funny Valentine”, emersa chiaramente dopo una introduzione libera e le classiche composizioni del pianista romano “Hindsight” e “Fellini’s waltz” passando per “Lost and found”, basata sul giro armonico dello standard “If I should lose you”, hanno fatto da trampolino per le riuscite rielaborazioni del trio che ha saputo alternare la vena romantica e dolente di Pieranunzi con lo spirito vitale postbop del drumming di Zirilli.
Tavolazzi, con l’entusiasmo di un ragazzino, ha contrappuntato i voli solistici del pianoforte ritagliandosi spazi improvvisativi sempre alla ricerca della melodia.
Al termine del concerto il pubblico che assiepava la sala del Conservatorio ha tributato il meritato omaggio ad un trio che, seppur non presentando innovazioni stilistiche, ha riletto con passione e competenza la gloriosa storia del piano trio.
Il tastierista norvegese Jon Balke persegue, da alcuni anni, il progetto “Siwan”, sestetto multietnico in cui convivono diverse esperienze di musica etnica rilette in chiave jazz.
Oltre ai compatrioti Helge Norbakken alle percussioni e Bjarte Eike al violino l’ensemble si avvale del contributo della cantante algerina Mona Boutchebak, dell’iraniano Pedram Khavar Zamini alle percussioni e del turco Derya Turkan al kemenche, strumento tradizionale a tre corde facente parte della famiglia della viola da gamba.
In questa occasione il sestetto, autore di alcune incisioni su Ecm, ha condiviso il palco con l’Ensemble d’archi del Conservatorio Giuseppe Verdi di Torino creando un impasto sonoro ricco e variegato.
“Siwan”, parola araba che significa”equilibrio”, è la cifra stilistica di un gruppo che mescola influenze tradizionali asiatiche, africane e dell’Andalusia medievale in nome di un messaggio di pace ed armonia fra i popoli di cui si sente particolare bisogno in questa epoca  individualista e rancorosa.
Il trio di Joshua Redman rappresenta, invece, la capacità di reinventare continuamente un genere mantenendosi fedeli alla tradizione afroamericana.
Reuben Rogers e Gregory Hutchinson sono una coppia ritmica infallibile che permette a Redman di sbizzarrirsi con la certezza di ritrovare sempre un punto di appoggio su cui atterrare.
Redman ha aperto il concerto con una introduzione solitaria su “Mack the knife” e sono bastati pochi minuti per capire come anche uno standard armonicamente tra i più banali possa riservare sorprese armoniche e melodiche degne di nota.
La sua maturità artistica gli consente di utilizzare in chiave musicale il virtuosismo evitando lo sfoggio di tecnica che rendeva velleitarie alcune sue incisioni giovanili.
Le composizioni originali di Redman si alternano a riletture, più o meno canoniche, dei brani della tradizione fino ad arrivare al funky “Hide and seek”, che apriva il cd “Freedom in the groove” del 1996, ed oggi chiude questa ispirata e trascinante esibizione che conferma il trio ai vertici della scena mainstream contemporanea.
Basterebbe una giornata come quella da noi seguita per testimoniare la vitalità di una scena contemporanea che ha saputo riempire di musica ed intrattenimento di qualità il capoluogo piemontese dal 26 aprile al 4 maggio.
Per rendervi pienamente conto della varietà della programmazione visitate il sito www.torinojazzfestival.it.
E, soprattutto, non mancate alla prossima edizione che, dopo il successo di critica e popolare di questa edizione, non deluderà le aspettative.