Un artista dalle molteplici sfaccettature: Simone Zanchini

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Simone Zanchini

Fisarmonicista tra i più interessanti e innovativi del panorama internazionale, la sua ricerca si muove tra i confini della musica contemporanea, acustica ed elettronica, sperimentazione sonora, contaminazioni extracolte, sfociando in un personalissimo approccio alla materia improvvisativa. Diplomato con lode in fisarmonica classica al Conservatorio “G. Rossini” di Pesaro, con il M° Sergio Scappini, strumentista eclettico, esercita un’intensa attività concertistica con gruppi di svariata estrazione musicale (improvvisazione, musica contemporanea, jazz, classica). Ha suonato in numerosi festival e rassegne in Italia (Clusone Jazz, Umbria Jazz, Tivoli Jazz, Time in Jazz – Berchidda, Sant’Anna Arresi, Barga Jazz, Mara Jazz, Jazz in’it – Vignola, Ravenna Festival, Rossini Opera Festival, Siena Jazz, Rumori Mediterranei – Roccella Jonica) e nei più importanti festival internazionali (Francia, Austria, Germania, Inghilterra, Olanda, Svezia, Danimarca, Finlandia, Slovenia, Croazia, Macedonia, Spagna, Inghilterra, Norvegia, Russia, Tunisia, Libano, India, Venezuela, Giappone). Vanta collaborazioni con molti musicisti di fama internazionale e di differenti estrazioni: Thomas Clausen, Gianluigi Trovesi, Javier Girotto, MarcoTamburini, Massimo Manzi, Tamara Obrovac, Krunoslav Levacic, Vasko Atanasovski, Paolo Fresu, Antonello Salis, Han Bennink, Art Van Damme, Bruno Tommaso, Ettore Fioravanti, Mario Marzi, Michele Rabbia, Andrea Dulbecco, Giovanni Tommaso, Gabriele Mirabassi, Frank Marocco, Bill Evans, Adam Nussbaum, Jim Black. Dal 1999 collabora stabilmente con i Solisti dell’Orchestra del Teatro alla Scala di Milano, con cui compie regolarmente tournée in ogni parte del mondo. All’attività concertistica e di ricerca, Zanchini affianca anche quella didattica, tenendo workshop sulla fisarmonica e sull’improvvisazione. Nel 2006 pubblica Bebop Buffet (Wide Sound) in duo con Frank Marocco, disco esemplare del linguaggio Bebop espresso con la fisarmonica. Nel 2009 Meglio solo! (Silta Records) nel quale sperimenta le possibilità timbriche del suo strumento attraverso l’uso di una particolare fisarmonica midi, live-electronics e laptop, nello stesso anno esce anche Fuga per Art 5et (Dodici Lune Records) l’unico disco tributo di Zanchini, omaggio al suo grande maestro, nonché uno dei massimi esponenti della fisarmonica jazz: Art Van Damme. Nel Settembre 2010 pubblica il disco The way we talk (In+Out Records), con un quartetto internazionale che coinvolge musicisti europei e statunitensi: Ratko Zjaca alle chitarre, Martin Gjaconovski al basso e Adam Nussbaum alla batteria. Nel Maggio 2012 viene pubblicato My Accordion’s Concept (Silta Records), l’ultimo lavoro di Zanchini, un progetto costruito su improvvisazioni radicali per fisarmonica acustica e live electronics, tentativo coraggioso di Zanchini di sovvertire il comune codice espressivo attraverso il suo strumento, tra i più fortemente radicati nella musica cosiddetta riconoscibile.

 

 

Un vasto universo musicale in un unico artista. Come riesci a far convivere in te e nella tua musica tante influenze diverse? Ce n’è qualcuna che prevale sulle altre?

La mia formazione è stata veramente eterogenea. A 7 anni mi sono avvicinato alla fisarmonica seguendo la passione di mio nonno e mio zio, che era legata al folklore. Ho così intrapreso un lungo e denso percorso in questo genere, ma già intorno ai 14 anni mi sono iniziato ad appassionare al jazz. Purtroppo in quel periodo già solamente sentire una fisarmonica suonare il jazz era rarissimo e quindi non ho potuto approfondire quanto volevo. Quindi ho deciso di iniziare un importante cammino nella musica classica, iscrivendomi al Conservatorio e conseguendo il diploma nel ’97 (tra i primi diplomati interni in Italia).

Successivamente è arrivata la volontà di trovare una strada personale, originale, di avere un suono mio e quindi tutte le mie precedenti esperienze si sono congiunte e influenzate, unite ad una curiosità, un’apertura mentale che sono alla base di tutto. La mia passione principale sicuramente è legata alla musica improvvisata e alla sperimentazione, non solamente contemporanea, ma anche mescolare mondi sonori lontani, come nel mio ultimo quartetto ispirato dalla musica di Secondo Casadei, rivestendo il folklore romagnolo di un colore jazz.

Tante sonorità significano anche una volontà (esigenza?) di rompere le barriere tra diversi generi e gli schemi che li governano; questo crea nella tua musica “giochi” sonori a volte anche irriverenti e mai banali o scontati. Cosa ti spinge a vivere e interpretare la musica così? Cosa ti aspetti che gli uditori colgano da una libertà così viscerale?

Non ho mai creduto negli steccati musicali, anzi mi hanno sempre infastidito. Non mi interessano i codici intesi come linguaggi, ma ovviamente mi piace studiarli. Ad esempio sarò sempre grato al BePop (vedi il mio ultimo disco con Marocco), ma per trovare una propria strada musicale non possono esistere le barriere o comunque devono essere fragili e distruggibili al bisogno. Quindi ho sempre preferito non seguirli, ma romperli!

Quello che mi spinge è il mio senso della libertà in senso alto, il mio senso anche anarchico della vita unito a moltissima curiosità e coraggio, che è indispensabile per essere pionieri di uno strumento. Da chi mi ascolta mi aspetto disponibilità, una parola a me tanto cara. Quando si va ad ascoltare un concerto di un tipo di musica non etichettabile, ma piena di sfaccettature e diverse influenze quello che si richiede è la disponibilità; essere disposti a capire cosa c’è dietro alle scelte di un artista per comprendere i suoi perché. Il più delle volte la trovo, ma capita anche di no… essendo a volte concerti non propriamente “godibili”, di facile fruizione, ma che richiedono anche un impegno da parte di chi ascolta. Ovviamente quando c’è diventa tutto una festa…

La continua ricerca di un suond “nuovo” ti porta ad usare spesso la fisarmonica associata all’elettronica. Credi sia fondamentale per trovarlo? Quali caratteristiche dello strumento si riescono ad ampliare e sviluppare in questo modo?

Sicuramente ad un certo punto ne ho sentito il bisogno; il suono acustico non mi bastava più e avevo bisogno di nuovi stimoli. Ho così attraversato un periodo esplorando nuove sonorità attraverso le “macchine”, sia applicandole direttamente allo strumento, partendo dunque dal suono acustico, sia utilizzando suoni sintetizzati, totalmente artificiali uniti a quelli della fisarmonica.

Da questo bel percorso sono nati i miei due dischi da solista BETTER ALONE e MY ACCORDION CONCERT, che hanno contribuito ad aprirmi nuovi orizzonti musicali.

Non credo, però, sia l’unica strada, di fatti ora sono tornato un po’ indietro. Tutt’ora continuo ad utilizzare l’elettronica applicata allo strumento, ma è arrivato poi il bisogno di un suono acustico, mio, personale, poiché quello degli strumenti standard non mi bastava più.

Dopo vari tentativi sono riuscito ad auto-progettarmi uno strumento sotto l’aspetto sonoro, estetico e meccanico. Si chiama Z Double 16. In un video su You Tube (https://www.youtube.com/watch?v=Tdz-hgUdkjA) spiego i vari perché che mi hanno spinto a fare questa scelta, partendo dalle mie personali esigenze e dalla volontà principale di crearmi la mia strada individuale, non ricalcando quella già percorsa da altri. La sua timbrica è facilmente riconoscibile e rappresenta in un certo senso il mio modo di suonare, un po’ aggressivo. Naturalmente tutto ciò è un work in progress, il suono cambia continuamente e sono state fatte delle modifiche da quando è nato.Simone Zanchini

Quali sono stati i tuoi “esempi” da ragazzo?

Riguardo i fisarmonicisti non molti, poiché amavo le sonorità jazz e a quei tempi era quasi impossibile ascoltare la fisarmonica utilizzata con questo linguaggio. Art van Damme e Frank Marocco sono stati i due fisarmonicisti jazz della “vecchia scuola” più rappresentativi.

Con Art van Damme ho suonato un paio di volte, ma era già avanti con gli anni quindi non abbiamo avuto modo di continuare; gli ho dedicato un disco FUGA PER ART proprio per esprimere tutta la mia stima e gratitudine ad uno “swingatore”, un guru, un fisarmonicista dal suono d’oltre oceano che in Europa non c’è mai stato, salvo pochissimi casi eccezionali.

Dopo questo disco mi ha scritto due lettere (che conservo come un cimelio) nelle quali, oltre ai complimenti, mi invita a suonare presto insieme. Un’emozione che mi porterò per sempre dentro al cuore.

Con Marocco ho avuto modo, invece, di registrare anche un disco, BEPOP BUFFET, trovandoci come il nonno e il nipote, forti di una stima reciproca.

Loro sono stati i miei idoli da piccolo, tutto il resto mi interessava un po’ meno; si iniziava a parlare di Galliano, Azzola e i vari ”musettari” come li chiamo io, ma onestamente li seguivo con molta meno enfasi. Riguardo i musicisti in generale Charlie Parker e Dizzy Gillespie mi hanno particolarmente rapito. Ricordo di aver sentito la prima esecuzione di Parker in una musicassetta uscita in edicola… fu uno shock, un colpo di fulmine e me ne innamorai.

Successivamente sono stato ben impressionato da tutta la parte più avanguardistica con Guy Glacius, Kimmo Pohjonen, Teodoro Anzellotti e altri strumentisti che hanno esplorato le nuove sonorità con la fisarmonica e non.

Spesso si confondono per fisarmonicisti jazz che suonano blues/swing americano anni ‘30/’40 perdendo così di vista, secondo me, l’essenza di tale attributo, che invece spinge verso una costante evoluzione e continua ricerca. Qual è la situazione del Jazz in Italia, in particolare nel mondo fisarmonicistico? Credi si potrà mai formare una “scuola” jazzistica italiana?

Già è qualcosa se suonano blues/swing! A volte si confondono per fisarmonicisti jazz ben peggiori, che suonano del tango jazzato o musette jazzato oppure varieté. Il jazz ovviamente può significare tante cose, però credo che come tutti gli altri strumentisti che fanno la propria gavetta studiando i vari linguaggi jazzistici, anche i fisarmonicisti dovrebbero avvicinarsi al genere attenendosi e conseguentemente adottando le linee guida basilari. Purtroppo invece c’è questa forma di virus che chiamo “tanghite” che ovviamente è molto vicina alla sonorità dello strumento, ma poco ha a che fare con il jazz. Sarebbe bello quindi avere una scuola di jazz, almeno in Europa, perché in America sono già ampiamente diffuse.

Ovviamente io stesso amo il tango, credo che Piazzolla sia stato uno dei massimi autori del secondo Novecento, mi capita anche di suonarlo, ma il problema è che sembra non riusciamo a uscire da questo pantano. In Italia e nel mondo in generale non c’è una situazione jazz legata alla fisarmonica. Ci sono alcuni jazzisti (si contano sulla dita di una mano) molto bravi, che portano avanti lo sviluppo dello strumento, che comunque rimane giovanissimo e non ha avuto ancora molti e importanti compositori che le hanno potuto conferire il prestigio di altri. Sicuramente tra qualche secolo avrà un passato simile a quello che oggi ha il pianoforte, il violino, etc.

Inoltre c’è un altro mondo puramente fisarmonicistico, che io chiamo “fisarmonicaro”, che vive a parte come i vari campionati mondiali, salti ad ostacoli, etc… ma tutto questo non c’entra niente con la musica in generale, sono mondi paralleli che nemmeno si sfiorano; ci sono fisarmonicisti che appartengono solo a quel circuito “fisarmonicaro” che nel mondo della musica nemmeno conoscono e viceversa. Un esempio è Antonello Salis!

C’è da dire che siamo in crescita comunque, negli ultimi 20 anni c’è stato uno sviluppo notevole! Mi auguro vivamente che si crei una scuola italiana e fisarmonicistica di jazz; sono sicuro che tra 10/15 anni sarà anche nei Conservatori proprio come è successo per il corso di Fisarmonica classica.

Uno dei tanti tuoi progetti è con i solisti della Scala di Milano; come ti trovi a suonare insieme a musicisti abituati a certi “schemi”? Che repertorio affrontate?

All’inizio era dura. Quando mi chiamarono per la prima volta dalla Scala di Milano per suonare Piazzolla io pensavo che non avrei messo più piede in quel teatro, invece fu un tale tripudio che ha fatto nascere una collaborazione che dura tutt’oggi.

C’è un aneddoto che spiega le difficoltà iniziali: nei miei primi anni di carriera, durante i quali sperimentavo moltissimo, ero in tour con il gruppo scaligero e mi capitò un concerto in trio di improvvisazione radicale. Fu una bella fatica! L’approccio musicale e umano è molto diverso quindi ci vuole un grande spirito di adattamento senza perdere la propria identità. Principalmente io mi occupo del ‘900. Generalmente loro la prima parte affrontano il repertorio classico, poi quando intervengo io passiamo a Piazzolla, Gershwin, Bernstein, Rota, ma anche ai classici dove qualche volta intervengo, per esempio una suite di Puccini in cui suono la parte del soprano Musetta. Quindi, anche se non è la situazione in cui esprimere i miei principali interessi, è una bellissima e prestigiosa esperienza!

Durante il tuo percorso troviamo anche un Diploma in Fisarmonica presso il Conservatorio “G. Rossini” di Pesaro. Qual è il valore aggiunto di questi anni di studio classico e verso cosa ti hanno portato?

Mi hanno dato moltissimo! Sono stato uno dei primi diplomati in Italia, sotto la guida del M° Sergio Scappini. Ho studiato in particolar modo il controllo del suono, l’emissione e tutti gli aspetti ad esso collegati che per gli strumenti meccanici, come il pianoforte, a volte si da per scontato, ma che ovviamente non lo sono. Inoltre un background musicale di tutta la musica trascritta per il mio strumento e invece appositamente concepita per esso. Fondamentale è stata l’elasticità del mio insegnante, perché non mi è mai interessato più di tanto questo mondo.

Simone ZanchiniOltre ai tuoi numerosi impegni da concertista, svolgi anche attività didattica. Come si fa ad insegnare ad essere “liberi”? Come lavori con i tuoi allievi?

In realtà non svolgo un attività didattica. Mi capita di fare dei workshop di musica d’insieme per lo più con diversi strumentisti. Mi piacerebbe insegnare una materia legata al jazz per il mio strumento (per un breve periodo l’ho fatto al Conservatorio di Pesaro). Ancora mi sento un musicista e una persona che deve imparare tanto, dunque preferisco impegnare il mio tempo per lo studio e la ricerca e non per la didattica.

Non si insegna ad essere liberi! Insegnare significa far rispettare delle regole rigide e ferree, che sono fondamentali per i ragazzi, ma purtroppo mi sento molto lontano da questo modo di essere.

Presente e futuro: cosa bolle in pentola?

Tante cose, come sempre! Attualmente sono impegnato con il mio quartetto (Stefano Bedetti al sassofono, Stefano Senni al contrabasso, Zeno De Rossi alla batteria) nel progetto “Casadei Secondo… Me”. Un grosso lavoro di arrangiamento per far rivivere queste melodie senza cadere nel Kitch. Di questo progetto uscirà anche un CD per l’etichetta Stradivarius. Non sono mai stato un appassionato degli omaggi, dei revival, ma se sei nato in Romagna è ovvio che certa musica ti segna…

È uscito da poco un disco in Trio con Angelika Niescier, Stefano Senni e stiamo per partire per un lungo tour in Germania in cui suoneremo jazz d’avanguardia con composizioni originali.

In Aprile è uscito  il disco con il trio “Tango y Algo Mas” per la Limen, interamente dedicato alla musica dell’est europeo (Ligeti, Bartok e altri anche popolari).

A fine Aprile ho registrato un disco a New York con Stefano Bedetti ai sassofoni e una ritmica americana, John Patitucci al contrabasso, Adam Nussbaum alla batteria. Il disco è uscito per la Inandout Records e uscirà a nome mio “Simone Zanchini – Brecker in the Bellow” dove Brecker sta ad indicare il grande jazzista Michael Brecker; il disco è però composto da composizioni originali ispirate a quello stile (Hard Bepop moderno).

 

Per info

www.simonezanchini.com