Gabriele Ottaiano, il pianista scrittore

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Gabriele OttaianoNegli ultimi anni l’Italia è diventata la nazione degli eterni insoddisfatti. D’altro canto, il popolo italiano è sempre stato particolare: la nostra nazione è riuscita prima a inneggiare Mussolini e l’entrata in guerra dell’Italia fascista e poi a rinnegare tutto al momento della sconfitta. Proprio così, non sarà una grande soddisfazione per chi è un nostalgico innamorato della patria, ma la penisola più rinomata d’Europa è un paese popolato da gente “strana” ed eternamente indecisa.

Proprio il pianoforte, è lo strumento che dalla fine del secolo scorso si presta alle diatribe più discusse dei teorici, anche essendo lo strumento che gode di una maggiore letteratura e soprattutto di una maggiore tradizione. E’ importante però, per tutti i buoni pianisti, tenersi al passo con i tempi e capire che – così come si evolvono lo sport, la medicina, l’ingegneria e la giurisprudenza – si evolve anche la musica. Il musicista in realtà, non svolge una mansione direttamente utile all’esistenza del genere umano, a differenza di chi svolge le professioni cosiddette “indispensabili”, come i medici, gli avvocati, gli architetti, i professori di lingue o addirittura i sarti. E per quanto qualcuno abbia accennato lo sterile tentativo di dare una svolta alla questione “utilità” con il discorso della musicoterapia, in verità mai nessuno è riuscito a dimostrare che la musica abbia uno scopo diverso dal piacere o dall’emozione, che alla fine sono sentimenti stimolati anche da una partita di calcio o da una poesia. Il risultato più ovvio, è che a differenza degli altri professionisti, il musicista che opera nel terzo millennio deve conquistare una posizione sociale con una fatica improba. A questo proposito, abbiamo sentito uno di quei pianisti che hanno conquistato la loro posizione sociale con il duro lavoro sia in ambito didattico che concertistico: Gabriele Ottaiano, autore dello straordinario libro “Sei mane sull’avorio”.

Maestro, iniziamo con una breve presentazione di Gabriele Ottaiano come pianista. Lei è ormai una colonna portante del Conservatorio “S. Pietro a Majella” di Napoli. Si trova bene a Napoli o anche lei è fra i tanti docenti di Conservatorio che hanno voglia di cambiare aria?

Beh, è una domanda quasi retorica. Il “S. Pietro a Majella” è un conservatorio storico in Italia, con una delle più grandi biblioteche esistenti al mondo, quindi è difficile dire di voler cambiare aria. Insegno pianoforte principale ormai da anni e sono titolare delle cattedre di “Metodologie Didattiche” e “Storia del Repertorio” al biennio di specializzazione. No, direi che mi trovo piuttosto bene.

Le materie che insegna non sono quindi solo prettamente pratiche. In giro si è sparsa la voce che i Conservatori producono gente che magari conosce la musica ma per il resto è fuori dal mondo. Lei pensa che per un musicista una formazione poliedrica sia importante?

Certo. Per questa convinzione mi sono diplomato oltre che in Pianoforte anche in Composizione e Direzione di Coro e ho conseguito la Laurea in Lettere Moderne presso l’Università di Napoli Federico II. Il musicista deve avere la capacità di estendere le proprie competenze oltre la banale digitalizzazione di un tasto, altrimenti non sarà mai un interprete vero. Un insegnante deve essere in grado non solo di suonare ma anche di spiegare quello che suona, e tutto ciò presuppone di avere una conoscenza del linguaggio almeno sufficiente e appropriata.

Lei si dedica anche ad attività extra-didattiche?

Certamente. Ho fatto parte della giuria di numerosi concorsi nazionali e internazionali, sia strumentali che di composizione e mi occupo personalmente dell’organizzazione di concorsi musicali ed eventi nella mia città di origine. Ho suonato e suono tuttora anche e, soprattutto, in formazione di duo e trio pianistico. Tanti docenti di Conservatorio sono convinti di fare il bene dei propri allievi dedicandosi accuratamente alle sole lezioni, ma oggi l’Italia impone un sistema generale (non solo nel campo della musica) che rende ovvia la cosiddetta “legge naturale della giungla”: se non mangi sarai mangiato. Traslando la metafora, se non ti attrezzi per essere un buon insegnante, non basta mica stare lì a dire “suona piano” o “suona forte”. Il valore aggiunto lo acquisisci lottando sul campo.

Quindi lei dice che per essere dei buoni insegnanti è necessario essere anche dei concertisti?

Non ho affatto detto questo. Nella vita si fanno delle scelte. Sicuramente scegliere di fare il didatta condiziona tanto la carriera concertistica, perché buona parte del tuo tempo lo trascorri con gli allievi, ma esiste comunque un’attività che ti qualifica. I grandi docenti di pianoforte, sono anche eccellenti musicisti anche se non concertisti di professione: guardiamo ad esempio Maria Tipo, Vincenzo Balzani, Sergio Fiorentino, Franco Medori, Marcella Crudeli, Michele Marvulli, Paolo Bordoni, Annamaria Pennella, Riccardo Risaliti, Benedetto Lupo e compagnia varia. Dall’altra sponda troveremo Maurizio Pollini, Arturo Benedetti Michelangeli, Eugeny Kissin e tanti altri che si sono dedicati esclusivamente al concertismo, ma è solo una questione di scelta. Fiorentino era un docente di pianoforte, ma quando voleva era anche un concertista eccellente che non aveva nulla da invidiare a Maurizio Pollini: la differenza è che il primo faceva il docente e il secondo il concertista a tempo pieno, ma è solo una questione di scelta. Per come vanno le cose oggi in Italia, ripeto, basta poco per capire se un docente conta qualcosa a livello musicale anche fuori dalla sua aula: basta capire in quali stagioni concertistiche suona, per quali eventi è invitato, in quali giurie di concorso è presente, con quali edizioni lavora o per quali enti tiene masterclass o corsi di perfezionamento. Oggi esiste internet, e nessuno può più celarsi dietro un dito: i tuoi allievi digiteranno il tuo nome su un motore di ricerca e capiranno chi sei. Se non hai mai varcato la soglia del palcoscenico di un Teatro, lo sapranno tutti, anche perché l’ordinamento della nuova riforma impone un sistema strano, dove a volte gli allievi sono più qualificati dei docenti: spesso nei bienni capitano studenti che hanno una o addirittura due lauree e sicuramente sono i migliori giudici del loro insegnante.

Ricevuto. Sappiamo che lei ha un’Accademia.

Sono fondatore dell’ Associazione “Accademia della musica partenopea Luigi Paduano” che sul territorio napoletano si occupa della formazione musicale dei ragazzi dai 2 anni in poi con il metodo ORFF.

Veniamo alle sue opere: cosa la spinge ad approfondire il repertorio a 6 e ad 8 mani?

Penso che un vero pianista debba saper suonare con gli altri. E’ davvero assurdo che esistano pianisti che magari sono ottimi solisti ma poi non sono in grado di andare a tempo con gli altri: questa si chiama musica da camera. Non ci dimentichiamo che Schubert era un amante del 4 mani per pianoforte e tanti altri compositori prediligevano questo tipo di repertorio. Poi, dalle 6 mani in su, diventa tutto repertorio raro (ride, ndr).

Le sue opere hanno uno scopo didattico?

Anche. Io scrivo anche per i miei allievi, perché voglio tenermi al passo con i tempi e con le metodologie didattiche e pretendo che loro abbiano il buon senso di rendersi conto che la conoscenza della musica non stia solo in un pentagramma.