Edmondo Comandini: l’allievo modello

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Edmondo ComandiniTra i tanti dualismi che nel corso dei secoli hanno contrapposto figure artisticamente e professionalmente importanti, si narra di un esterrefatto e compiaciuto Cimabue che tentò ripetutamente, e invano, di scacciare una mosca burlescamente dipinta dal suo allievo prediletto, tale Giotto Ambrogio di Bondone, in uno dei suoi celebri dipinti. Ma la storia ha soventemente abbinato grandi maestri a celebri allievi e non è certo questo l’unico esempio meritevole di cronaca; semmai, rappresenta lo spunto per presentare un artista che, con la complicità di un bravissimo docente, ha saputo ritagliarsi una dimensione di riguardo nell’olimpo dei grandi della musica da ballo. Mi piace, però, sottolineare, prima di procedere con i contenuti dell’intervista, l’amore e il rispetto di un uomo, Edmondo Comandini, nei confronti del suo compianto insegnante, che continua rigorosamente a chiamare Maestro, a dispetto dei lunghi trascorsi insieme sia da studente, sia da orchestrale e l’affetto che trapela da ogni singolo ricordo e che generalmente si riserva ad una figura paterna.

Dunque Edmondo, la prima è una domanda d’obbligo: chi era Vittorio Borghesi?

Come potrei definirlo… un musicista preparatissimo, un grande uomo o, semplicemente, un secondo padre. Gli devo tutto e l’aver condiviso con lui momenti importantissimi della mia vita e della mia carriera artistica è motivo di grande orgoglio. Ho iniziato a studiare con lui a sette anni e dopo un periodo di riflessione, tipico dell’età adolescenziale, mi sono ritrovato nella sua band, prima come semplice orchestrale, poi come naturale successore. Non potrò mai dimenticare il giorno che mi convocò nel suo studio per sottopormi ad un provino: venivo da un periodo di inattività e dovevo assolutamente dimostrarmi all’altezza del compito. Ero emozionatissimo, malgrado si trattasse del mio vecchio insegnante. Mi fece eseguire due brani, Re Cecconi, composto da Al Pedulli e La Disperata di Ferrer Rossi; finita l’esecuzione, rimase qualche attimo in silenzio poi mi disse: “Proviamo!”, e da quel “proviamo” sono rimasto ventitre anni. Il mio primo servizio furono i preliminari per il Disco dell’Estate a Saint Vincent… mica male come inizio! Vittorio Borghesi era una persona carismatica e autorevole, nel suo DNA c’erano i cromosomi dell’artista, non ostentava la sua superiorità, ma ti metteva comunque in soggezione. Negli ultimi tempi, prima che si ammalasse gravemente, si limitava a fare un piccolo show, spesso si suonava con due fisarmoniche. Una volta, nel mezzo della serata, mi guardò e mi chiese di eseguire una sua composizione, un tango particolarmente difficile; gli risposi: “Non ce la faccio, ho paura di sbagliare!”. Non disse una parola, prese lo strumento e lo interpretò lui. La sera successiva, stessa identica domanda e medesima dinamica, ma questa volta aggiunse: ”Domani, lo suoni tu!”. Studiai tutto il giorno, ma fu l’ultima volta che mi trovò impreparato. Abbiamo suonato insieme per sette anni e per altri sedici ho fatto le sue veci. Non avrei mai lasciato l’orchestra, troppi ricordi e troppo grande l’affetto per il Maestro Vittorio, ma le circostanze della vita, prima o poi, ti pongono davanti delle scelte e tu devi essere pronto ad affrontarle. Ora ho una formazione tutta mia, ma gran parte del repertorio è costituito dai suoi brani, vuoi perché si tratta comunque di grandi successi, vuoi per una forma di riconoscenza nei confronti di un uomo straordinario a cui sono legato da un ricordo indissolubile.

Si parla tanto della diversità d’interpretazione tra lo stile romagnolo e quello piacentino: si tratta esclusivamente della velocità di esecuzione relativa ad alcuni ritmi standard o ci sono differenze di arrangiamento e orchestrazione dei brani?

La differenza tra lo stile romagnolo e quello piacentino non si può attribuire esclusivamente alla velocità di esecuzione dei brani, che, comunque, in determinati ritmi c’è ed è piuttosto evidente (i balli standard romagnoli sono tutti tendenzialmente più veloci). La linea degli arrangiamenti è piuttosto diversa: nel genere piacentino sono molto lineari ed essenziali, anche per l’assenza di strumenti a fiato nella struttura armonica, mentre il romagnolo, che tradizionalmente annovera in organico pure il sax contralto e il clarinetto in do, si identifica per alcuni abbellimenti ritmici, come ad esempio passaggi di batteria e rullate, del tutto caratteristici. Ma non sono queste le uniche differenziazioni, fermo restando che ogni grande orchestra si distingue dall’altra e assume una precisa identità che la rappresenta e la personalizza. Noi romagnoli diamo molta importanza alle dinamiche di esecuzione, i cosiddetti “piano e forti” che incidono notevolmente sulla resa acustica del brano e accentuiamo molto il “levare” a differenza dei piacentini che marcano di più il “battere”. La batteria accompagna prevalentemente con tre elementi, cassa, rullante e charleston e la fisarmonica, malgrado i tanti virtuosi che si sono consacrati proprio qui in Romagna, rappresenta un qualcosina in più, ma non del tutto fondamentale, in quanto, nella nostra interpretazione del “liscio”, a farla da padrone sono gli strumenti a fiato.

Come si ottiene “il suono” tipico romagnolo? Mi riferisco chiaramente al suono della fisarmonica del quale sei un apprezzatissimo alfiere; quali sono gli accorgimenti che si usano sul palco e negli studi di registrazione?

Per quanto mi riguarda, sia sul palco che in sala d’incisione non uso accorgimenti particolari; non c’è una regola ben precisa, il suono romagnolo è molto pastoso e tagliente e si ottiene grazie ad una serie di combinazioni quali ad esempio l’accordatura e la sonorità dello strumento che chiaramente deve essere aperta e incisiva. Le fisarmoniche progettate per la musica da ballo non necessitano nemmeno di grandi interventi in fase di equalizzazione perché suonano già bene così; a volte, si ottiene un effetto più gradevole tagliando alcune frequenze dei medi ma, alla fine dei conti, credo che la differenza la faccia “il cuore” e l’interpretazione del musicista, che deve trasmettere qualcosa di speciale. Detto questo, io ho in testa “il suono di Borghesi”, per ottenerlo mi reco personalmente presso le aziende costruttrici e, insieme all’accordatore, mi realizzo uno strumento del tutto personalizzato. Ribadisco comunque il concetto che, per la gente di Romagna, la fisarmonica è una figura complementare e non deve rubare la scena ai fiati che spesso la fanno da padroni. Pertanto, sarebbe forse più corretto parlare di uno stile, di un genere che nell’insieme di tutti i suoi elementi fa tendenza e non dell’effetto di un “suono” legato ad un singolo componente.

Edmondo ComandiniL’orchestrale: una professione ambita ed invidiata fino agli anni ’90 poi… il buio più totale. Una crisi dovuta essenzialmente all’andamento economico che incide anche nella struttura delle grandi formazioni, o c’è dell’altro?

Essere orchestrale dà molte soddisfazioni, ma richiede anche molto sacrificio. Credo che i giovani di oggi non se la sentano di intraprendere la nostra professione, sia per il modesto riconoscimento economico, sia perché in molte situazioni, e mi riferisco esclusivamente alla musica da ballo, purtroppo non viene data loro la possibilità di suonare dal vivo e, quindi, di mettere a frutto anni di studio.

Parliamo della musica da ballo, così poco considerata e criticata: qualche suggerimento per invertire la tendenza e per avvicinare i giovani al suono della tradizione.

Salvo una piccola parentesi a cavallo degli anni Ottanta, quando si materializzò probabilmente il periodo più prolifico per le grandi orchestre, grazie anche alla visibilità data dalla televisione di Stato, la musica da ballo è sempre stata poco considerata e un po’ sottovalutata. Qualcuno, erroneamente, la reputa di serie B; personalmente, la vedo in maniera diversa e la ritengo un importante percorso formativo, una palestra che ti avvicina all’improvvisazione e alle molteplici soluzioni armoniche. Mi piace, perciò, constatare che la fisarmonica, e qui faccio riferimento esclusivamente al mio genere, è in buone mani, perché sono tantissimi i giovani virtuosi che portano avanti la tradizione e allo stesso tempo riescono a sdoganare questo suono, tanto particolare quanto suggestivo, anche in altri generi musicali. Un suggerimento? Torniamo finalmente tutti a suonare dal vivo, a metterci in gioco, ricominciamo a provare in gruppo sistematicamente durante la settimana… Io lo faccio da sempre e devo dire che gli stimoli non mi mancano di certo.

In un sistema così poco meritocratico, i gestori delle sale selezionano le orchestre esclusivamente in funzione del budget o provano a privilegiare anche un minimo di qualità?

Ai gestori che tu suoni dal vivo o in playback (cosa che io non ho mai fatto in 36 anni di professione), che tu sia un valido musicista o meno non interessa più di tanto, l’importante è contenere le spese, accontentare il pubblico e, di conseguenza, riempire il locale. Che tristezza…