Oltre ogni singolo effetto-La fisarmonica “profonda” di Pauline Oliveros (7ª parte)

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“OLTRE OGNI SINGOLO EFFETTO”
La fisarmonica “profonda” di Pauline Oliveros
(7ª parte)

 

Pauline OliverosQuattro compositori/esecutori per otto brani. Il risultato, tutt’altro che aritmetico, è Quartet For The End Of Space (Pohus, 2011). L’attività di Pauline Oliveros, nel 2011, non si esaurisce con l’installazione sonora Tower Ring presso la Ann Hamilton Tower in California. Ormai, abbiamo imparato a conoscere il suo prorompente impulso alla composizione e alla registrazione di nuovi brani. E abbiamo imparato a conoscere, soprattutto, il suo insopprimibile anelito alla sperimentazione con nuovi e vecchi compagni di strada. Quelli di Quartet For The End Of Space sono: Francisco Lopez (Untitled #270 e Untitled #273); Doug Van Nort (Outer e Inner); Jonas Braasch (Snow Drifts e Web Doppelgänger). I brani di Pauline sono: Mercury Retrogade e Cyber Talk. Tutti i pezzi sono eseguiti da Oliveros, Braasch e Van Nort e trattati elettronicamente da Lopez. Temi astronomici, sonorità aliene, vibrazioni metalliche che si rarefanno per poi riapparire come fossero spettri della nostra epoca, o, anzi, del futuro. Viaggi stupefacenti tra le stelle, lungo gallerie gravitazionali, fluttuando nello spaziotempo: jam session elettroacustiche tra musica concreta e free jazz, colonna sonora ideale per le immagini mentali generate dalla lettura di un romanzo di Stanislaw Lem.
Francisco Lopez, spagnolo, è un «architetto del suono». Il suo lavoro si basa quasi esclusivamente su registrazioni di ambienti sonori. Alla base delle proprie decisioni circa l’elaborazione ulteriore del materiale sonoro non ci sono scelte stilistiche, ma la constatazione delle proprietà della materia sonora di per sé. “La mia preferenza per i suoni ambientali rispetto a quelli generati dagli strumenti” – sostiene – “è completamente schaefferiana, nel senso che si basa su un gusto personale per le qualità di questi suoni come ‘oggetti’ (o meglio, come ‘materia’), ma non sulla loro origine di per sé”.
Doug Van Nort è un compositore/improvvisatore elettroacustico, che si esibisce su strumenti elettronici fatti da sé per esplorare – come dice lui stesso – “i confini del rumore e del tono, la fitta stratificazione dei materiali, i microsuoni, la trama, il drone, le ampie gamme spettrali e dinamiche e l’emergere di nuovo contenuto che risulta dalle interazioni con spazi acustici idiosincratici e immersivi”. Van Nort cattura, spesso, i suoni dal vivo durante le performance, mentre i materiali registrati precedentemente interessano anche strumenti e ambienti naturali.
Jonas Braasch è davvero un architetto. È docente presso la School of Architecture del Rensselaer Polytechnic Institute di Troy (New York, U.S.A.) e il suo interesse principale, volendo sintetizzare l’ampia gamma di quelli che coltiva, ricade sull’architettura uditiva e sui processi creativi nell’improvvisazione musicale. Tra i numerosissimi Master che ha conseguito ce n’è anche uno in Musicologia. Per non parlare del sax soprano che suona.
Il titolo dell’album e la filosofia che vi sottende sembrerebbero ispirati al celebre Quatuor pour la fin du temps per pianoforte, violino, violoncello e clarinetto di Olivier Messiaen, composto (ed eseguito per la prima volta) nel 1941 nel campo di Görlitz, presso il quale l’autore era prigioniero di guerra. Al centro dell’opera di Messiaen c’è il problema del tempo, affrontato dal punto di vista religioso, filosofico e musicale.
Nel 2011 (gennaio), torna anche la Deep Listening Band, solida formazione che vede, al fianco di Pauline (campana tibetana e fisarmonica Roland V), Stuart Dempster (trombone e didgeridoo) e David Gamper (campane, conchiglia, pianoforte, flauti e percussioni) per dare vita a Octagonal Polyphony. È l’ultima occasione, per i tre partner storici, di stare assieme: David Gamper morirà nel settembre di quello stesso anno. Il titolo dell’album, frutto di una residenza e di un concerto a Seattle, nasce dal sistema Meyer Sound Surround di DXArts, con i suoi otto altoparlanti e quattro subwoofer che circondano la band e il pubblico. “Stavo ascoltando in modo sferico!” – esclamerà Stuart Dempster – “Il suono proveniva da sopra e da sotto di me e da tutto intorno a me. Chiedevo a Stuart di ricordarmi: quanti artisti suonavano quella sera? Oh sì, solo tre…”. Michael McCrea, che si occupa di ogni aspetto relativo alla registrazione e al missaggio, dichiara per le note di copertine: “Sapevo che catturare la scena uditiva intorno a me sarebbe stato uno sforzo avvincente. Con non poche prove e immaginazione, abbiamo impostato i microfoni in tutta la sala. Avevamo bisogno di ascoltare da ogni direzione, come avrebbe fatto il pubblico, mentre lo spazio acustico si spostava costantemente, espandendosi, moltiplicandosi e risuonando secondo il capriccio e la volontà della Band e del loro invisibile collaboratore, l’EIS (Expanded Instrument System, inventato da Oliveros alla metà degli anni Sessanta, n.d.r.)”.
Con questo album la Deep Listening Band continua il proprio viaggio di investigazione del potenziale sonoro dello spazio e del riverbero, iniziato nel 1989 con Deep Listening.
Bell Dance è il primo dei due brani che compongono l’album. È costruito su una rete ondulata di campane tintinnanti, puntellate dai flauti di Gemper e dal trombone di Dempster. Poi, l’afflusso improvviso e minaccioso del didgeridoo prorompe, scandendo lo spazio sonoro con vibrazioni aspre.
Dreamport è la seconda traccia. La fisarmonica di Pauline è protagonista e si fa progressivamente più densa, orditi e venature si sovrappongono fino a raggiungere un Infinito palpitante.

 

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