Intervista con Rolando Lucchi su Frammenti e Commentari…

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La fisarmonica da concerto nella musica contemporanea

Quattro incontri con quattro compositori

di Corrado Rojac

 

PREMESSA

Corrado RojacAnche quest’anno, dopo il plauso ottenuto dall’iniziativa l’anno scorso, la redazione di Strumenti&Musica mi ha chiesto un contributo sulla musica contemporanea per fisarmonica. Ho accolto l’invito con gioia. Ho pensato di presentare alcuni pezzi, scritti per me da importanti compositori, che ho eseguito in prima esecuzione presso sedi prestigiose, quali l’Accademia Chigiana di Siena (Laboratorio di Composizione del M° Corghi), il Teatro Bibiena (Stagione del Conservatorio “Campiani” di Mantova), la Sala della Tromba di Trento (Ciclo “Musica Novecento”) e la Basilica di S. Silvestro a Trieste (Festival Trieste Prima).

Per l’anno 2016 si è concordato di presentare quattro compositori, con cadenza bimestrale. Si proporrà quindi Vincenzo Gualtieri, Gabrio Taglietti, Rolando Lucchi e Giorgio Colombo Taccani.

 

 

Chi è Rolando Lucchi

Nasce a Trento nel 1963 e si avvia agli studi musicali presso il Conservatorio di Trento, ove consegue il diploma in Pianoforte (1987) seguito poi, in quella concezione di formazione permanente che accompagna ogni musicista, da numerose altre esperienze formative: Musica corale e direzione di coro (1991, Conservatorio di Verona), Composizione (1994, Conservatorio di Brescia) e Pedagogia della musica (2000, Conservatorio di Firenze).

Vive e lavora a Trento spaziando la propria attività nei mille rivoli dell’attività culturale legata al mondo della musica. La sua attività professionale lo ha visto impegnato infatti sia come compositore, che come organizzatore, critico musicale, consulente di enti ed istituzioni pubbliche e private nell’ambito delle politiche culturali e della organizzazione dei processi formativi, nel centro insomma del discorso musicale del suo territorio. I suoi interessi pedagogici lo hanno portato ad assumere la direzione della Scuola musicale “Il Diapason”, in un continuo contatto con la didattica ed una fruizione musicale rivolta al reale, a quei bisogni primari della funzione dell’arte e della musica cioè che spesso vengono trascurati nelle stanze più squisitamente accademiche della produzione culturale.

Ha studiato composizione con Paolo Castaldi e Alberto Soresina, che inevitabilmente sono diventati anche dei modelli, più o meno inconsci, della sua produzione. Di Castaldi sicuramente è rimasta traccia nella parte creativa del comporre, del pensare musica e nella capacità di sorpresa, di cercare sempre nuove e articolate idee sonore, ma il mestiere, l’applicazione tecnica ed artigianale del mettere insieme le note è attribuita essenzialmente a Soresina, che gli ha trasmesso il mondo dell’Accademia e la conoscenza della tradizione, del rapporto con il materiale e la capacità di elaborazione dello stesso.

Sue musiche, alcune composte su commissione di festival, associazioni concertistiche e culturali, musicisti, sono state eseguite nelle principali città italiane, in concerti e festival, registrate e radiotrasmesse dalla RAI terza rete radiofonica, incise in CD per l’etichetta Symposium, casa di produzione discografica di Trento nella collana Nautilus, per l’etichetta EMA RECORDS di Firenze e per IL DIAPASON EDIZIONI di Trento, pubblicate per i tipi delle Case Editrici Rugginenti di Milano, CIDEA di Riva del Garda (TN), Kookaburra di Parma, e META parole & immagini di Firenze.

 

L’esperienza compositiva di Rolando Lucchi

di Marco Russo

Rolando LucchiSfogliare il catalogo di Rolando Lucchi, come spesso accade per tutti i musicisti contemporanei, è un’esperienza di per se stessa ‘estetica’. Esso è infatti costellato di frasi, suoni, rimandi concettuali che si pongono spesso non come una semplice descrizione, sintesi dei successivi contenuti, bensì come un’estensione, a tratti anche capace di integrare e completare il fenomeno unicamente sonoro, quello cioè dell’ascolto musicale.

Da …dunque;, del 1981 – e si noti l’ambigua punteggiatura, avviata da una sospensione e conclusa con una risoluzione che non appare definitiva – a cinque tempi del 2016, l’interesse dell’autore si è alternato fra musica strumentale, forse la più creativa ed idonea al suo spirito estetico, e quella vocale, sempre pregevole, ma inevitabilmente vincolata al senso del testo; fra musica ‘pura’, slegata da qualsiasi contingenza e vincolata unicamente dal piacere dello scrivere (Stop and go, Break, Break in Break, Notturni, Six memos, sabi e wabi, aloë, ecc.) a musica più contingente (I giardini d’infanzia, Là, dove scivola la terra, Fino all’ultimo giorno, Stella!, ecc.), senza per questo perdere una coerenza di scrittura che rende ben riconoscibile la mano del suo autore, e ne conferma una cifra stilistica chiaramente delineata.

Se le macerie del post-webernismo, del miraggio della serialità integrale e del rifiuto di ogni riferimento al linguaggio tonale ha caratterizzato tutto il secondo ‘900, chi, come Lucchi, ha vissuto una fase di coscienza della fine di un’epoca, non ha esitato a recuperare un afflato più ‘umano’ della musica e, pur mantenendo un istinto progettuale profondo, a coniugarlo con una visione della musica che non rinnega né il suo passato, né tantomeno rifugge dal suo presente.

Il vicolo cieco dell’avanguardia più radicale, rispettato ma non certo aderito, coincide con quella consapevolezza, tipica appunto degli anni ’80, periodo peraltro che coincide con l’avvio dell’attività ufficiale di composizione di Lucchi, che vede lo smarrimento delle narrazioni lineari, delle granitiche certezze sul senso (ormai legate a stilemi iterati solo dalla musica di repertorio), e della sperimentazione fine a se stessa, spesso effettuata in buona fede, ma incapace di comunicare in quanto ogni volta costretta a costruirsi e ridefinirsi il contesto semantico e culturale da cui trarre l’energia necessaria al proprio sostentamento.

Analizzando il contesto, ed alla ricerca di facili slogan, si potrebbe riassumere il tutto con la parola ‘Postmoderno’, che tuttavia pare naturalmente inadeguata a rappresentare le specificità messe in atto. Tuttavia, i caratteri di polistilismo, di utilizzo di materiali e tecniche preesistenti, il gioco combinatorio con cui i suoni vengono di volta in volta gestiti e amalgamati, non possono che richiamare il ritorno ad un’estetica del ‘bello’, decisamente contrapposta al rifiuto di qualsiasi concessione alla consonanza tipica del periodo ‘moderno’ della musica. Facendo attenzione ai termini, ed alle loro inevitabili relazioni di significati che comportano, non è quindi inappropriato individuare in brani come Break, Stop and Go, Break in Break, forse i più significativi dell’intero catalogo nel forgiare lo stile personale, i caratteri di quella intercambiabilità sistematica, che fanno del linguaggio di Rolando Lucchi un esempio chiaramente definito. Tali caratteri si manifestano con insistenza, sino a diventare una sorta di vera e propria idée fixe, che specificano gran parte della tecnica compositiva dell’autore: i giochi combinatori si amalgamano e si ripropongono in un ciclo di eterno ritorno, così da semplici stratagemmi organizzativi da sviluppare nell’arco di un brano, divengono veri e propri cicli (Notturni, Six Memos, aloë, sumens), espressione di una ricombinazione continua che travalica persino l’esperienza della scrittura e dell’ascolto, ma si espande all’infinito.

Persino nei brani più squisitamente ‘narrativi’, dolce è la luce, Tanghi, ecc., il discorso viene sempre sviluppato in termini personali, articolando di volta in volta uno sguardo ironico o riferimenti spirituali delineati, quasi a rinunciare alla tanto ricercata personalità espressiva che ciascun artista spesso vanamente insegue, ma lasciando sempre libero l’ascoltatore di costruire e ricostruire secondo le proprie capacità e possibilità, in un ambito di reciproco rispetto il cui la figura dell’artista perde ogni sacralità, anche se la sua personalità sicuramente permane e continua ad assumere un ineludibile ruolo di guida spirituale, etico ed estetico.

Ogni gesto di Rolando Lucchi, infatti, pur nella molteplicità di interessi e di attività che lo contraddistingue, sussume un alito di estraneità dalle contingenze dell’umano, di elevazione a obiettivi puramente estetici, senza trascurare la familiarità con un mondo, come quello che ci circonda, strettamente legato a valori, obiettivi e funzioni fortemente standardizzati.

 

L’INTERVISTA

ovvero…

Commento ad un’intervista immaginaria con Rolando Lucchi su Frammenti e Commentari (1991) per fisarmonica da concerto

di Marco Russo

 

Perché un’intervista immaginaria?

L’invito di Corrado Rojac, è stato accolto con entusiasmo da Rolando Lucchi. Non tanto per una questione di visibilità personale, o celebrazione dell’opera specifica, quanto piuttosto per il riannodare un filo interrotto, un’amicizia che per i casi della vita aveva perso l’antica frequentazione. Da questa prospettiva già si comprende come l’adesione all’intervista non potesse seguire dei canoni tradizionali.

Stanco, forse, di parlare di se stesso, di perorare una causa (inevitabilmente) utilitaristica ed autoreferenziale, Lucchi ha così pensato di “delegare” l’intervista al sottoscritto, di rispondere cioè non tanto in prima persona con i pensieri del momento (che inevitabilmente mutano nel tempo e, chissà, forse diventano anche contraddittori), ma con il giudizio, il parere di uno sguardo “terzo”: un resoconto cioè tendenzialmente più oggettivo, o quantomeno indirizzato verso un aspetto più percettivo che propositivo.

Le risposte che seguono alle domande “standard” di Rojac, quelle cioè presenti nelle interviste precedenti, sono quindi osservazioni strettamente personali dello scrivente che, sebbene documentate, verificate e auspicabilmente corrette nella forma e nei contenuti, si pongono in sostanza come una sorta di verifica dell’opera e del pensiero di Lucchi invece di assumere la veste della sua ufficialità espressiva. C’è ancora bisogno, infatti, nella nostra tanto decantata civiltà dell’informazione, di fornire sempre nuove ed articolate notizie? Un compositore, a cinquant’anni, ha ancora la necessità di discutere sulla propria opera, di ripetere, solo con leggere variazioni terminologiche, gli stessi concetti e le stesse informazioni?

Lucchi ha ritenuto di no, e quest’espediente permetterà di verificare il grado di trasparenza e di efficacia della sua opera nei confronti di pubblico ed operatori del settore; di toccare con mano, insomma, se l’insieme delle proprie azioni nel mondo, e nel mondo musicale in particolare, abbia conquistato una sua dimensione autonoma ed una specificità espressiva.

Come ha a più riprese dichiarato Franco Donatoni, in un esempio di lucidità intellettuale che tutti ancora gli riconoscono, l’opera vive di una vita propria, e l’unico controllo che può avere il compositore consiste nella sua scrittura. Solo in quel momento può permettersi di segnarne le sorti e la struttura. Una volta ceduta agli interpreti, al pubblico, essa vivrà di una vita propria, che non necessariamente coinciderà con le volontà dell’autore.

Tutto sommato Lucchi sta facendo la stessa cosa, o perlomeno estremizza lo stesso concetto. Avendo consegnato la propria opera e la propria esistenza ad una parte pubblica di cui ha perso ogni controllo, delega ad altri la responsabilità di tentare di riassumerne gli sviluppi e l’identità.

 

L’INTERVISTA (immaginaria)

di Marco Russo

 

Come descriverebbe il panorama della musica contemporanea del momento e il suo sviluppo negli ultimi decenni?

Il mondo della musica, e quello della musica contemporanea in particolare, non sono distinti dalla cultura e dalla società in generale. In una visione concreta, di un operatore che vede la sua azione non semplicemente come una pulsione estetica (e chi non ne ha?), ma un complesso reticolo di norme, relazioni ed obblighi, la musica ha un ruolo di sicuro margine nella civiltà del nostro tempo, ed in esso quello della musica contemporanea è ancora più delimitata, compressa, isolata.

Il mondo della musica è di conseguenza un mondo molto piccolo, spesso autoreferenziale, che sopravvive ancora per miracolo, fra le catastrofi delle orchestre chiuse, dei teatri e di relazioni incapaci di aprirsi alle reali necessità della società contemporanea.

Come ha profeticamente anticipato Gentilucci, la contemporaneità artistica è indirizzata verso un sempre più vasto ed articolato “molteplice” in cui trova dignità qualsiasi espressione, tecnica ed estetica.

Gli ultimi decenni sono stati il periodo forse più nero della cultura del nostro tempo. Si sono viste prestigiose istituzioni ridimensionarsi, o peggio chiudere; sono praticamente scomparsi tutti i pionieri del linguaggio musicale post-weberniano. Persino la musica elettronica, che è sempre parsa come l’ultima vera speranza utopistica di una incondizionata libertà della musica, è stata travolta dal progresso tecnologico e dalla diffusione massmediale. Tant’è che lo stesso termine, faticosamente entrato nel lessico di ogni musicista è stato immediatamente traslato ed acquisito dalla produzione industriale di massa.

Viviamo in un tempo di crisi, soprattutto economica e di valori, e produciamo una musica in crisi, sicuramente economica e spesso anche di valori.

Come vede il proprio operato compositivo all’interno di esso?

Il rapporto di Rolando Lucchi con il mondo della musica è assolutamente disincantato. Nonostante tutta la sua produzione risulti palesemente permeata da un’estetizzazione diffusa, da una leggerezza ed una curiosità a tutto tondo, la musica è in fondo vista come un mestiere, e come tale considerata. Il piacere personale, e quello del suo pubblico, che certamente esistono e vengono seriamente presi in considerazione, non sono mai subordinati a preconcetti estetici e/o battaglie donchisciottesche.

Di sicuro è presente un enorme rispetto per la storia ed i suoi protagonisti, per le conquiste tecniche (compositive) ed estetiche che hanno attraversato, nello specifico, tutto il ‘900 e parte del nuovo secolo, tuttavia la ricerca di idee “forti” non sembra mai averlo affascinato abbastanza da indurlo a perseguirle.

Al contrario, la peculiarità più evidente di Rolando Lucchi consiste nella ricerca di marginalità, nel dettaglio, nell’idea fragile e poeticamente esistenziale. Il richiamo al pensiero “debole” di Vattimo ed alla grande stagione del postmoderno pare evidente. Tuttavia, anche la se sua produzione è di sovente incentrata su un citazionismo esasperato e sul riutilizzo di materiali preesistenti, non si limita alla sola “citazione” e “ri-assemblamento”. La costruzione teorica ed estetica di Lucchi su ogni evento, l’edificazione di ogni dettaglio e la cura di ogni oggetto-progetto musicale diventa a suo modo una narrazione “forte”, capace di sostenere l’opera e la sua esistenza.

In questo senso, la contraddizione di fondo che emerge da questa descrizione, si adegua con perfetta simmetria al mondo contemporaneo, in cui tutto trova una sua giustificazione ed uno spazio.

Può descriverci Frammenti e Commentari?

Si tratta del primo brano di Lucchi dedicato alla Fisarmonica, e quindi affrontato, come tutti gli esordi con un misto di curiosità e rispetto. Fino a quel momento, siamo nel ’91, quindi con un Lucchi neanche trentenne (quindi ampiamente all’interno di quella strana categoria, tutta musicale, dei “giovani compositori”), sebbene attivo nel campo della composizione musicale da almeno dieci anni. In quel periodo si segnala la frequentazione, collaborazione ed amicizia con Vittorio Gelmetti, un maestro “occulto” che segnerà gran parte delle idee poetiche della futura produzione.

Gelmetti è noto per la grande stagione delle opere composte con la tecnica del collage, tecnica direttamente traslata dal mondo dell’arte figurativa che frequentava abitualmente. Un esempio mirabile è stato Nous irons a Tahiti, del 1965, per nastro magnetico.

Non pare improprio quindi vedere nella predilezioni di Lucchi per il materiale sonoro preesistente un’influenza sottile, oltre che di Castaldi anche di Gelmetti.

Del resto il brano si presenta già dal suo titolo. Frammenti e Commentari è infatti un brano in cui si presentano dei frammenti d’autore a cui seguono dei commenti personali. Quasi un esercizio di stile o, se si vuole, una forma di variazione, o meglio, di continuazione alternativa, sviluppo decontestualizzato. Una rilettura, appunto, di idee altrui, l’apertura verso una possibilità inespressa che è comunque insita non solo nel materiale stesso, ma nel processo di fruizione di qualsiasi ascoltatore.

Potrebbe illustrarci alcuni tratti stilistici dell’opera?

Siamo nel pieno della poetica del frammento, e mai come in questo caso il titolo fu più programmatico. Nei quattro fogli dello spartito si presentano cinque schegge sonore di tre compositori russi ‑ Sofia Gubajdulina, Vladimir Bonakov e Vladislav Zolotarëv – da eseguirsi senza interruzione di continuità. Poche battute, giusto un’idea, il materiale armonico e melodico necessario a rivendicare una specifica identità sonora e strutturale e la possibilità di trasformarla a proprio piacimento. La citazione, tuttavia, non si ferma al solo materiale, ma si espande allo stesso repertorio dello strumento. Se la presenza della Gubajdulina impreziosisce il gioco dei frammenti per la grande notorietà acquisita proprio sul finire del ‘900 e, per questo, distoglie dal vero obiettivo, bisogna ricordare come Bonakov e Zolotarëv siano in realtà grandi compositori-interpreti, quindi con una produzione strettamente legata al mondo della fisarmonica.

Omaggio nell’omaggio, Frammenti e Commentari diventa dunque non solo una citazione di brani, e di autori. Esso si riferisce piuttosto ad una cultura complessiva, la Russia appena entrata nella stagione post-comunista, ed il grande repertorio, la tradizione esecutiva e compositiva che questa terra e questa cultura avevano dedicato allo strumento plasmandolo in una nuova identità.

Potrebbe, a grandi linee, darcene un’interpretazione analitica?

Non esiste, per forza di cose, una necessità analitica. Si potrebbe forse fare una descrizione, come sin troppo spesso si fa della musica spacciandola per “analisi”, ma sarebbe di sicuro un discorso ridondante ed inopportuno.

Il commento dei frammenti originali procede con le classiche tecniche del fare musica: continuità e discontinuità, conservazione dell’impianto ritmico-armonico e variazione.

Che pensa dello strumento fisarmonica?

La fisarmonica fa parte di quella schiera di strumenti che, per tradizione, sono esclusi dal pensiero e dalla prassi orchestrale. Ha una sua, nobilissima, dimensione della tradizione popolare e folklorica, ma tranne poche eccezioni procurate dalle pur brillanti trascrizioni la prassi della musica classica è pressoché estranea.

Lo strumento vive però la sua stagione più florida, secondo i nostri canoni, nella più schietta contemporaneità, tant’è che negli ultimi 60 anni ha forgiato un repertorio di grande qualità ed interesse.

È interessante perché pur possedendo una tastiera ha un suono soffiato: un paradosso, se si vuole. Non è per niente che abbia trovato quindi un certo interesse nell’ambito della musica d’oggi, sempre alla ricerca di nuove modalità timbriche. A tutto ciò si affianca la grande tradizione esecutiva, con virtuosi di assoluto valore. Uno stimolo troppo importante per qualsiasi compositore.

Quali altri suoi pezzi sono legati alla fisarmonica?

Dopo il ’91 l’impegno verso la fisarmonica ha subìto un lungo silenzio. Ha prevalso da una parte l’amore per lo strumento preferito, il pianoforte, che richiama anche una certa intimità dell’espressione, dall’altra la naturale esplorazione di ulteriori ensemble strumentali. Nel ’99 compare però nel catalogo di Lucchi Soli, per fisarmonica e pianoforte (e coppia di ballerini) che è un collage di frammenti di tanghi celebri, e dal qual momento lo strumento è frequentato con una certa regolarità. Immediatamente seguirà infatti aloë (2000) suddiviso in tre sezioni (a, b, c, dove c è la somma di a e b) per vibrafono, xilofono, glockenspiel, marimba, gong m.g. e fisarmonica, un brano impegnativo della lunghezza importante: venti minuti per ciascuna delle tre parti, che si pongono come un ideale ciclo espressivo, ma anche come brani autonomi, eseguibili separatamente. Al 2002 risale invece haiku, per clarinetto, fisarmonica e violoncello, e subito dopo (2003) la serie di sumens (I-XIII) che vede la fisarmonica protagonista nei primi cinque, nel VI e VII, nel IX e X, e nel XII e XIII. Il ciclo dei sumens è costruito su alcuni brevi frammenti di mottetti scritti da John Dunstable (c. 1390-1453). Poi seguono haik (2005) per due fisarmoniche, halo (2006) per chitarra e fisarmonica, nero (2011) per due fisarmoniche e pianoforte a quattro mani a cui è succeduta anche una versione per ensemble di clarinetti e slow (2012) per due fisarmoniche.

Tanto ci sarebbe da raccontare su tutti questi brani, che sono il frutto di suggestioni, stimoli, non sempre riassumibili in scarne parole descrittive. Certo è che si tratta di un corpus diventato nel tempo piuttosto corposo, legato anche alla frequentazione di interpreti d’eccellenza, come Roberto Caberlotto, che sicuramente hanno rappresentato uno stimolo essenziale a mantenere vivo l’interesse per lo strumento.

Ha altri progetti legati alla fisarmonica?

Al momento non sono direttamente a conoscenza di progetti futuri di Lucchi riguardo alla fisarmonica. Risposta insoddisfacente, me ne rendo conto… Potrei chiedere direttamente a lui, ma verrei meno all’idea dell’intervista “immaginaria”, e francamente non me la sento.

Eccoci dunque arrivati all’empasse fatidica di tutta l’intervista? No, direi di no. Da quel poco che forse sono riuscito a far trapelare della personalità artistica di Lucchi e del suo modus vivendi, appare chiaro come la progettualità compositiva non risulti mai autonoma ed indipendente. Rolando Lucchi vive la sua vita giorno per giorno e compone la sua opera nella stessa prospettiva.

Sebbene la sensibilità personale e le esperienze culturali, professionali, private inducano sicuramente a raccogliere stimoli ed idee per sempre nuovi e stimolanti progetti, l’approccio compositivo è sempre strettamente concreto. Come ebbe a dichiarare lui stesso in una ormai lontana intervista con Emanuela Rossini pubblicata in un volume curato dal sottoscritto, Lucchi non ama comporre se non per una occasione di esecuzione concreta. La figura del compositore qui perde la sua immagine di “necessità interiore” del comporre, per declinare nella fascinazione della collaborazione, del rapporto cioè con il pubblico e l’interprete. Fare musica, così come abbiamo visto dal suo curriculum, non consiste unicamente nel comporre, ma nell’operare su diverse, ed a volte contraddittorie, direttive. Quindi il foglio bianco pentagrammato è riempito solo quando scaturisce un progetto, un’idea condivisa capace di attirare la sua attenzione.

Senza nessuna ipotesi o illusione di progettualità del futuro, si può dunque affermare che altri progetti musicali saranno sicuramente realizzati, dato che l’attività professionale porta costantemente ad effettuare incontri ed intrecciare collaborazioni sempre nuove, e che quelli legati alla fisarmonica, strumento ormai ampiamente familiare e ritenuto di grande interesse per le sue capacità tecnico-espressive, sarà sempre e squisitamente legato alle necessità del progetto artistico intrapreso.

Si tratta di una visione forse un po’ aristocratica del fare musica, di selezione estrema delle possibilità compositive in un contesto che vede la musica contemporanea sempre più compressa dai meccanismi culturali massmediali contemporanei, ma ciò serve, è necessario, è indispensabile, a dare appunto valore alla propria attività, con la certezza che qualsiasi progetto musicale intrapreso è il frutto di una convinta condivisione ed una totale dedizione.