TJF 2023 – Ritratti del jazz contemporaneo

Riflettori puntati sotto la Mole per una delle manifestazioni più importanti del jazz internazionale

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Torino Jazz Festival 2023 - Adriano GhirardoChi sostiene che il jazz sia morto, che la spinta propulsiva generatasi quasi un secolo fa sia esaurita, dovrebbe fare un salto al Torino Jazz Festival, giunto quest’anno all’undicesima edizione.

Perché, all’interno di una programmazione di nove giorni (dal 22 al 30 aprile), si sono susseguiti concerti, jam sessions, marching bands ed altri eventi culturali in grado di animare l’intero capoluogo avvicinando cittadinanza e turisti alla variegata ricchezza dell’universo musicale di origine afroamericana. Per impegni precedentemente presi ho potuto assistere solamente a tre intense giornate di musica di cui, nelle prossime righe, troverete le mie impressioni, ma lo spessore dei nomi in programma nelle altre giornate fa immaginare un en plein di cui va ringraziata l’Organizzazione ed il Direttore Artistico Stefano Zenni.

Le O.G.R hanno ospitato i concerti di domenica 23 aprile e, segnatamente, l’omaggio a Laura Betti tributato da Cristina Zavalloni con l’Orchestra del Conservatorio di Torino ed il trio di Kenny Barron. La Zavalloni, dall’alto di una carriera trentennale che l’ha portata ad esibirsi come cantante jazz e lirica nei migliori contesti internazionali, si è dimostrata in grado di reinterpretare una figura iconica come quella della Betti a cui grandi compositori  (Piccioni, Umiliani, Carpi) e poeti (Pasolini, Fortini, Soldati) dedicarono note e testi. Gli arrangiamenti di Cristiano Arcelli, sassofonista e vera anima del progetto, il contributo discreto e sapiente del combo jazz, la magia orchestrale, le letture di Jacopo Tomatis ed i video ritraenti la musa pasoliniana hanno contribuito a ricreare la magia di un repertorio in cui non è mancata la “Speak low” tratta dal canzoniere di Kurt Weill che la Betti interpretò in due incisioni del 1963.

Da una “Potentissima Signora” al grande Kenny Barron che ha illuminato la scena con una esibizione tratta dal tour con cui festeggia i suoi primi 80 anni. Il trio, comprendente Kiyoshi Kitagawa al contrabbasso e Johnathan Blake alla batteria, rappresenta una delle più riuscite macchine da swing dell’ultimo decennio. Se la rilettura del repertorio standard da parte di musicisti meno dotati può risultare priva di sorprese gli stessi brani, nelle mani di questo trio, non cessano di produrre meraviglia negli ascoltatori. Dall’iniziale monkiana “Teo” passando per “How deep is the ocean”, dall’omaggio all’amico Charlie Haden (“Nightfall”) ad alcune composizioni originali del leader non sono mancati momenti in cui apprezzare finezza interpretativa ed interplay. Non inganni il passo claudicante mostrato dal pianista dopo l’applauditissimo bis perché i suoi 80 anni non si sentono minimamente sul palco.

Il giorno successivo ha visto le esibizioni di Louis Sclavis + Federica Michisanti trio al Teatro Vittoria e del trio formato da Hamid Drake, Shabaka Hutchings e Majid Bekkas all’Hiroshima Mon Amour. La giovane contrabbassista è uno dei talenti più interessanti della nuova generazione ed il riconoscimento della critica (Top Jazz 2020) le ha consentito maggiore visibilità in una scena in cui l’affermazione femminile non è ancora così agevole. La particolare formazione comprende il violoncello di Salvatore Maiore, la batteria di Emanuele Maniscalco ed i clarinetti del prestigioso ospite francese che dà anche lustro internazionale alle composizioni della Michisanti. Un jazz cameristico che tiene insieme musica eurocolta e free jazz mantenendo, comunque, alti livelli di fruibilità e testimoniando l’originalità del prodotto e la buona salute della scena italiana.

La scelta di “aprire” il festival a locali esterni al mondo jazzistico quali lo storico Hiroshima Mon Amour risulta, a mio parere, un segnale positivo del fatto di volersi mettere in gioco rifiutando le logiche opposte dell’autoreferenzialità e della capitolazione alle logiche commerciali. Infatti i due progetti che vedevano impegnato Hamid Drake, quello succitato e l’omaggio ad Alice Coltrane del giorno successivo, erano in grado di interessare un pubblico differente grazie alla commistione tra jazz ed Africa, tra improvvisazione ed estasi ritmica. Hutchings, sassofonista inglese in grado di riavvicinare i giovani al jazz come i suoi colleghi statunitensi Kamasi Washington e Makaya McCraven, è il solista adatto per fare da contraltare alle melodie cantate ed al guembri del musicista marocchino Majid Bekkas ed alla spinta ritmica ancestrale di Drake. Il gruppo, al debutto a Torino, è sembrato in grado di rispettare la tradizione jazz e quella gnawa facendo emozionare e ballare un pubblico probabilmente poco avvezzo ai festival jazz e questo rappresenta una vittoria. Il sestetto dedicato a Alice “Turiya” Coltrane è un progetto in cui convivono l’elettronica di Jan Bang e la danza e la voce di Ngoho Angem, la tromba di Sheila Maurice Grey e le tastiere di Jamie Saft sotto la guida spirituale del leader che, da ragazzo, conobbe Alice e ne subì la positiva influenza musicale ed umana.

La mia permanenza al festival non poteva finire meglio che con il concerto dei Five Elements di Steve Coleman nella prestigiosa location del Teatro Alfieri. Coleman è, ormai unanimemente, considerato una figura chiave del jazz contemporaneo ed il concerto torinese, nonostante gli effetti del jet lag dichiarati dal leader, non ha fatto eccezione. Il patrimonio della tradizione jazz, da Parker a Coltrane, mescolato alle ritmiche funk esplorate sino dalla fondazione del movimento M-Base negli anni 80, sono alla base di una estetica originalissima ed inconfondibile portata avanti ed arricchita in tutta la sua lunga carriera. La tromba di Jonathan Finlayson rappresenta il suo alter ego, un po’ come Don Cherry per Ornette, e la formazione basata su un quartetto senza strumenti armonici riporta talvolta al pensiero un altro gruppo che, pur nella diversità stilistica, cercava in libertà nuove vie espressive. La possente ritmica di Rich Brown e Sean Rickman sostiene le evoluzioni dei solisti che prendono il via dai temi spigolosi e ritmicamente intricati di Coleman. Desta piacevole sorpresa l’inserimento in repertorio di brani della tradizione quali “Round midnight” e “Prelude to a kiss”. A dimostrazione che il jazz vive, percorre mille strade differenti ma non perde mai il legame con la propria storia.