Gli “angoli” nascosti della fisarmonica

Intervista a Gabriele Manca

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Gabriele MancaLa giornata del 10 dicembre 2022, dedicata dal Festival di Nuova Consonanza alla fisarmonica da concerto, ha rappresentato un’imperdibile opportunità per ascoltare dell’ottima musica. Ed è stata anche l’occasione, per me, di conoscere di persona quelli che, fino a quel momento, erano stati “solamente” dei nomi e delle note. La sera di quel 10 dicembre, ho potuto stringere la mano, tra gli altri, di Gabriele Manca (per la biografia professionale rimando, come sempre, al sito del compositore), del quale avevo appena ascoltato, in prima mondiale, Con forza elementare per fisarmonica microtonale, interpretato da Fanny Vicens. Al momento del commiato, la reciproca promessa di risentirsi dopo le feste per un’intervista. Promessa mantenuta da entrambi.

Gabriele, solitamente, quando incontro un compositore che non sia anche fisarmonicista, mi avvicino gradualmente a quello che, come puoi facilmente immaginare, sarà il tema centrale dell’intervista per un giornale specializzato come “Strumenti&Musica”. Stavolta, ho deciso di procedere diversamente e di iniziare non solo dal nostro strumento, ma, addirittura, dal brano più recente che gli hai dedicato, quello scritto per Fanny Vicens e per la sua fisarmonica microtonale XAMP. Su quale terreno si sono incontrate la tua ricerca musicale e quella organologica di Fanny, che lo strumento, insieme a Jean-Étienne Sotty, l’ha progettato?

Ricerca organologica e ricerca musicale in generale significano sempre “sfida” e la sfida ha rappresentato da sempre uno dei miei principali “motori” per l’invenzione. Quando ho ricevuto la richiesta di scrivere un pezzo per la fisarmonica microtonale mi si sono accese tutte le luci e hanno suonato tutti i campanelli nella mia testa! “Certo che sì”, ho detto, anche conoscendo il lavoro di Fanny Vicent, straordinaria interprete, ma anche “inquieta” ricercatrice. Che cosa avrei potuto pretendere ancora? Il contatto con Fanny e con il suo strumento è stato subito entusiasmante, ho ricevuto da lei le informazioni necessarie, gli schemi, le possibilità, le combinazioni. Ma poi mi sono direttamente rivolto alla mia invenzione, qualcosa deve risuonare nella testa. E così è andata. Devo dire che, proprio perché non sono un fisarmonicista, l’incontro con i limiti, oltre che con le possibilità e le potenzialità notevoli di un nuovo strumento, mi permette di mettere in movimento quell’idea di sfida di cui parlavo prima. La mia formazione pianistica, ormai un po’ remota, ma non per questo totalmente appannata, mi ha tenuto lontano per molto tempo dal mio strumento proprio per l’eccessiva familiarità, per una sorta di timidezza e per la coscienza delle difficoltà tecniche e non solo. Negli strumenti che non suono, ovvero quasi tutti, questa timidezza, curiosamente, scompare e interviene una sorta di incoscienza e di spericolatezza che sono possibili solo con il distacco e la distanza. Quando scrivo per uno strumento che all’inizio conosco poco, immagino, però, l’azione dell’interprete, l’azione fisica, muscolare, digitale, la sua presenza. Questi movimenti, minuscoli o ampi che siano, liberano sempre la mia voglia di combinare, di costruire, di “far durare”. La fisarmonica microtonale aggiunge ulteriore complessità alle trame del suono e, secondo me, rappresenta una svolta davvero interessante per lo strumento. Questo pezzo per Fanny e per questo strumento magnifico asseconda ancora una mia ossessione degli ultimi anni, quella dell’ascolto: se dovessimo ascoltare un brano di musica seguendone la struttura formale, l’architettura, la logica dei pesi e contrappesi, delle condizioni di equilibrio, non riusciremmo a far altro che ricostruire, forse a memoria e confidando in una buona facoltà di “immagazzinamento” delle immagini sonore, una composizione che sarebbe tale solo a posteriori, da “morta”, quando non ne esiste più traccia nell’aria. Deduciamo, dunque, che la musica non esisterebbe nel momento della sua manifestazione sensoriale. Nei miei ultimi lavori una nuova idea di “stringa” di ascolto porta con sé il principio di una non-forma, di uno svolgimento sonoro ed esistenziale che “è” esattamente nel momento in cui l’aria vibra, senza il soccorso della memoria che dà la forma. Un’idea non molto lontana da quel pensiero che vuole affondare le sue radici nelle ragioni più profonde e più primitive degli “affetti”. Per Dada, l’arte era “una delle forme, comuni a tutti gli uomini, di quell’attività poetica la cui radice profonda si confonde con la struttura primitiva della vita affettiva”, scriveva Tristan Tzara. Quando ascoltiamo, ascoltiamo quindi il nostro ascoltare e il nostro sentire primitivo, di umani. Il titolo di questo pezzo, al quale sono già molto affezionato, parte da una riga di Andrej Platonov da Il vento delle immondizie: “La luce penetrava con forza elementare…”.

Se già il tuo brano mi aveva conquistato, ora lo fanno le tue parole: i riferimenti a Dada e a Platonov, scrittore perseguitato dall’oscurantismo stalinista, toccano due corde sensibili della mia formazione culturale. Ma facciamo qualche passo indietro nel tempo. Se non sbaglio, il tuo primo incontro ravvicinato con la fisarmonica risale a ventisei anni fa, con Acromatopsia per fisarmonica, viola, violoncello e chitarra Midi (o chitarra elettrica). Eri alle soglie dei quarant’anni e alle spalle avevi già un curriculum artistico molto importante. Chi e/o che cosa provocò il tuo interesse per lo strumento? Vorrei sapere qualcosa anche a proposito della scelta del titolo: l’acromatopsia indica l’incapacità totale di percepire qualunque colore…

Il caso di Acromatopsia è semplice. Si trattava di un progetto collettivo con diversi amici compositori ognuno dei quali si sarebbe dovuto occupare del colore, una sorta di spettacolo con luci e testi realizzato proprio a Roma nell’ambito dei concerti dell’Acquario. Un po’ di anni fa. Io mi sono avvicinato al tema stabilito negando il colore e utilizzando la metafora dell’acromatopsia per definire una grammatica del vedere, parafrasando proprio Wittgenstein delle Osservazioni sui colori:  “Una stirpe di soli daltonici potrebbe vivere molto bene. Ma inventerebbero i nostri stessi nomi per i colori? E in che modo la loro nomenclatura corrisponderebbe alla nostra? Come suonerebbe qui la loro lingua naturale? Lo sappiamo? Potrebbero, forse, avere tre colori primari: blu, giallo e un terzo che prenderebbe il posto di rosso e verde? – Cosa succederebbe se incontrassimo una simile tribù e volessimo impararne la lingua? Incontreremmo alcune difficoltà”. La mia idea era quella di portare una riflessione sulla grammatica dell’ascoltare seguendo un po’ il ragionamento del grande filosofo austriaco. La fisarmonica e i due archi rappresentano in questo pezzo una sorta di “macchina” di suoni, qualcosa di asettico, in parte, e di meccanico. La chitarra elettrica fende questi automatismi con suoni lunghi e malinconici… Ancora Wittgenstein: “Che cosa si può dire a sostegno del fatto che il verde è un colore primario, e non un colore misto di blu e giallo? Sarebbe corretto dire: ‘Questo si può riconoscere immediatamente: basta guardare i colori?’. Ma come faccio a sapere che con queste parole: ‘Colori primari’ intendo la stessa cosa che intende un altro, che sia anche disposto a dire che il verde è un colore primario? No – qui decidono i giuochi linguistici”. La fisarmonicista nella prima esecuzione era Anne Landa, una bravissima e acutissima interprete spagnola, per l’esattezza, basca.

Un anno dopo, siamo nel 1997, componi Moti perpetui per Opus III e Opus IV di Walter Ruttmann per flauti dolci (un solo esecutore), fisarmonica e chitarra. Walter Ruttmann (1887-1941)  è stato un regista tedesco, esponente di rilievo dell’avanguardia cinematografica, profondo conoscitore di musica, che “utilizzò le immagini reali come elementi di una sinfonia visiva”, si legge nell’Enciclopedia Treccani. Già da questa definizione si potrebbe intuire il tuo interesse per questa figura. Ma vorrei saperne di più: perché questo progetto, perché la scelta di questo ensemble e, soprattutto, della fisarmonica? E chi fu il fisarmonicista che la eseguì in prima assoluta?

Qualcosa di meccanico sopravvive anche in Moti perpetui per Opus III e IV di Walter Ruttmann. Anche in questo caso si trattava di un progetto collettivo, che ha avuto una buona circolazione, sui film astratti degli anni Venti/Trenta del XX secolo. Il progetto si intitolava Symphonie Diagonale, con pellicole di Hans Richter, Laszlo Moholy-Nagy, Viking Eggeling e, appunto, Walter Ruttmann. Quest’ultimo mi aveva molto impressionato per la sua essenza maniacalmente formalistica. I “motori” di Ruttmann, che spesso non producono altro che movimento e scansione temporale, vanno in libero contrappunto con i miei suoni; i miei Moti perpetui sono, in questo senso, strani orologi che ingabbiano porzioni finite di tempo dove le figure sono solo il segnale di inizio o di fine. Come gli orologi, rappresentano un disperato tentativo di rendere il fluire del tempo oggettivo e assoluto in un’implacabile successione di immagini. Come ogni evento artistico che usi la durata come superficie espressiva, cinema e musica agiscono come un liquido di contrasto segnando, nell’indistinto fluire del tempo, frammenti, ammassi, segmenti di esistenza. Anche in questo caso la tendenza a una certa “fissità” e oggettività del suono della fisarmonica, un suono assoluto, direi, aveva scatenato immagini molto scandite, spesso spigolose e nitide. Ruttmann era un ottimo musicista e possiamo dire senz’altro un compositore accorto. Il suo Wochenende è, che io sappia, il primo esperimento di audiofilm o di brano di musica concreta, datato 1930. Ruttmann usa solamente la banda sonora di una pellicola cinematografica per realizzare una sorta di cinema per le orecchie. È quindi chiaro che questo artista difficilmente inquadrabile potrebbe essere forse più semplicemente definito come “artista di tempo”. Questi due cortometraggi astratti sono pura arte di tempo e di luce, musica di luce. In un certo senso, con la distanza che mi separa da questo mio lavoro, posso dire di aver “tradito” l’idea dell’autore tedesco aggiungendo suono a ciò che doveva essere solo luce, appunto. Tuttavia ne sono ancora contento. Anche in questo caso l’interprete era Anne Landa.

Interrompiamo per un attimo la nostra conversazione sulla fisarmonica. Leggendo il tuo curriculum, ho notato una particolare propensione nei confronti del Giappone: nel 2000, il rapporto con la Japan Foundation Uchida e, in seguito, il soggiorno in quello straordinario Paese, così lontano, però, dalla nostra cultura. Lì, ti sei occupato del Teatro Noh e hai collaborato con la regista Chiseko Tanaka. Sono sempre stato affascinato dalle intersezioni culturali e, quindi, mi piacerebbe conoscere origini e sviluppo di questa, e come tu l’abbia tradotta musicalmente…

L’arte giapponese, sia quella classica che quella moderna e contemporanea, mi ha sempre molto attratto. La letteratura, quindi, le arti figurative, il design, la musica, naturalmente. Non so in quale momento della mia vita io abbia incontrato il teatro Noh. Ricordo di aver comprato un libro di Giancarlo Calza e subito dopo, sull’onda dell’entusiasmo, il libro fondamentale di Zeami Motokiyo, Il segreto del teatro Noh nell’edizione Adelphi. Zeami è considerato lo Shakespeare giapponese, autore di testi teatrali, quindi, ma soprattutto è colui il quale ha fissato i canoni fondamentali di questa raffinata e complessa forma di teatro. Ma ora che ne parlo ricordo di essermi avvicinato al teatro di Zeami attraverso la lettura di William Butler Yeats il quale a sua volta ispirò Ezra Pound e altri. Quindi il mio osservatorio sul Giappone passa attraverso la lente di due poeti occidentali di lingua anglosassone. La riscoperta del teatro Noh nel Novecento mi sembrava davvero molto interessante. In quel periodo ero molto attratto dal rigore della ricerca formale e il teatro Noh in questo senso è molto rigoroso, i passaggi strutturali sono assai bilanciati ed equilibrati. Ogni sezione, ogni ruolo, ogni gesto ha la sua precisa collocazione in un progetto generale, una grammatica teatrale molto meticolosa, codificata, appunto, da Zeami. La struttura del Noh, la sua compostezza, la sua sobrietà hanno affascinato molti altri artisti giapponesi e non. Banjamin Britten ha scritto quel capolavoro che è Curlew River; Yukio Mishima ha scritto i suoi Noh moderni; Iannis Xenakis era rimasto folgorato dal suono di quella musica così estrema per le nostre orecchie. Appena mi si è presentata la possibilità ho fatto una richiesta di fellowship presto la Japan Foundation e mi sono fatto avanti con un progetto di studio, innanzi tutto, e con una progetto di opera teatrale che avesse a che vedere con la struttura del teatro Noh. Ho quindi frequentato il corso di Kikuko Massumoto, compositrice e grande esperta di Noh e di Gagaku, altro genere fondamentale della musica classica giapponese, all’Università Toho Gaken di Tokyo. Nel mio lungo soggiorno ho naturalmente avuto modo di frequentare un gran numero di spettacoli delle diverse scuole del Noh, di intervistare molti artisti, di seguire il Gagaku, ma anche il Bunraku, teatro delle marionette davvero impressionante, e il Kabuki. Inutile dire che l’esperienza giapponese ha marcato profondamente la mia vita. Da quella esperienza sono nati diversi pezzi che faranno parte di un lavoro teatrale. Uno fra questi è Entrance music, commissionato dal Nieuw Ensemble di Amsterdam. È un pezzo per ensemble del quale vado molto fiero. Ma anche Conduite d’approche III, commissionato dall’Elisione Ensemble di Melbourne e poi ripreso più volte da Klangforum Wien, è ispirato alle strutture della musica giapponese così come lo sono molti altri miei lavori. Naturalmente, da tutto questo ho bandito senza pietà gli esotismi e gli ammiccamenti orientaleggianti! Ciò che mi interessava era proprio la struttura, il rigore delle relazioni tra le parti, le proporzioni, il contenitore così forte e inconfondibile. Durante il mio soggiorno giapponese, con Chiseko Tanaka ho realizzato il cortometraggio Rokurobyoe, un documentario su un celebre interprete di Nohkan, il flauto del Noh. Il film è stato presentato all’International Film Festival di Bratislava. Ultimamente, devo dirlo, il mio interesse per la forma e per la costruzione strutturale è completamente scomparso a favore di un’idea diversa di flusso sonoro.

Con certe citazioni – stavolta, Yeats e Pound – continui a rafforzare il mio interesse per le tue opere. Torniamo alla fisarmonica, però. Nel 2003, a distanza di sei anni da Moti perpetui per Opus III e Opus IV di Walter Ruttmann, lavori di nuovo col mantice, scrivendo Fados. È un brano per sola fisarmonica, se non vogliamo considerare strumenti l’elettronica live e il nastro. Dunque, un interesse più specifico per il nostro strumento? Un’occasione per esplorarne più approfonditamente le potenzialità espressive? Anche in questo caso vorrei sapere chi fu l’esecutore del brano e che cosa cerchi nel confronto con il concertista che dovrà interpretarlo.

Ho scritto Fados su invito di Claudio Iacomucci. L’occasione di scrivere qualcosa per lui con elettronica per il festival Synthese di Bourges mi sembrava molto ghiotta. Con Claudio ho lavorato molto bene. Il centro del pezzo è sicuramente lo strumento e l’elettronica, sia live che registrata, ne sono l’emanazione, la proiezione, l’aura. Ricordo un contesto magnifico, il cortile interno di un bellissimo palazzo rinascimentale con qualche residuale garrire di rondini nella tarda serata. Davvero una meraviglia. In quel caso mi sono molto concentrato su un uso un po’ “muscolare” del mantice, ma anche su sonorità sottili. Credo che il pezzo sia un po’ faticoso, ma non impossibile. Iacomucci ha dato prova di grande abilità, musicalità e intelligenza, gli sono molto grato. Musicisti così sono una vera manna per un compositore. Si tratta di interpreti, come anche nel caso di Fanny Vicent, Anne Landa, di grande generosità, ma soprattutto di grande “inquietudine”, come forse ho già detto. Un’inquietudine sana e creativa che aiuta infinitamente la creatività, la ricerca, l’innovazione. Il panorama, che a volte può sembrare ostile e difficile, si sta facendo invece ricco di queste figure e alcuni strumenti a volte riservati a ristrette nicchie di cultori, come potrebbe essere anche la fisarmonica, sono usciti allo scoperto rivelandosi a volte sorprendenti. Devo comunque dire che gli interpreti che ho avuto la fortuna di incontrare, soprattutto i tre fisarmonicisti di cui sopra, più che interpretare hanno “vissuto” i miei pezzi, al mio fianco. Molto bello.

Ci vogliono ben tredici anni prima di un tuo ritorno alla fisarmonica. Nel 2016, componi Dispositivo per la continuità per corno di bassetto solista e grande ensemble. Ho due curiosità che vorrei soddisfare. La prima è relativa alla scelta del corno di bassetto, appartenente alla grande, straordinaria famiglia dei clarinetti, non del tutto consueto, però, nella musica contemporanea (mi pare che Stockhausen abbia scritto per questo strumento) e con un repertorio che spazia, invece, da Mozart a Beethoven e Mendelssohn; la seconda curiosità è quella del ruolo che hai affidato alla fisarmonica nell’ambito di un grande ensemble.

Dispositivo per la continuità è stato scritto per un interprete eccezionale come Michele Marelli, un vero virtuoso di questo strumento. Come dicevo prima, ci sono interpreti che stimolano la creazione di nuovo repertorio con la loro curiosità, disponibilità e abilità. Marelli è sicuramente uno di questi. Oltre a tutto, pur essendo ancora giovane, ha alle sue spalle una grande esperienza e la decisiva collaborazione con Stockhausen di cui è un interprete fondamentale. Ho voluto scrivere una sorta di concerto per corno di bassetto e grande ensemble. Questo pezzo parte, oltre che dalla volontà di lavorare con Marelli, da un’idea legata allo scrittore cileno surrealista Vicente Huidobro e al suo poema Altazor, pubblicato nel 1931. La prima edizione riporta nel frontespizio “con un retrato del autor por Pablo Picasso”. Il sottotitolo completo dell’opera è Altazor o el viaje en paracaídas (Altazor o il viaggio in paracadute). La metafora della lenta caduta, che gradualmente e lentamente modifica la percezione dello spazio, della dimensione delle cose, della distanza dalle cose, è il nucleo di partenza di questo mio pezzo. Mano a mano che nello srotolamento della composizione ci si avvicina a un punto focale, si forma una nuova visione delle cose, una nuova prospettiva, fino alla prossimità con un nuovo punto focale, a un’altra prospettiva e così via. La catena, quindi, per associazioni di idee, assonanze e “rime” costituisce la non-forma del pezzo: non per sviluppi, non per narratività, non per consequenzialità, non per ripetizioni, ma solo per assonanze, vero dispositivo per la continuità. “Hemos saltado del ventre de nuestra madre o del borde de una estrella y vamos cayendo” (“Siamo balzati dal ventre di nostra madre o dal bordo di una stella e continuiamo a cadere”). Il corno di bassetto, strumento mozartiano o stockhauseniano, con il suo suono innocente e ibrido, cade dapprima quasi privo di gravità nel tempo vasto e senza margini, poi sempre più nel tempo stretto degli oggetti vicini. La fisarmonica è ben integrata, io credo, e così era nella mia volontà, con il gruppo strumentale nel quale conduce proprio ruolo di legante, di collegamento tra famiglie di strumenti. Raramente, la si sente isolata e chiara, ma se la si togliesse si sentirebbe un vuoto insopportabile, ne sono assolutamente certo. In questo pezzo ho voluto dare alla fisarmonica una funzione “spaziale”, quasi da strumento elettronico. Il suo suono conferisce all’insieme uno straniamento che mi convince molto.

Nel 2017, hai composto Lettres comme a l’envers per grande ensemble, coro e soprano. A quali esigenze creative rispondeva l’inclusione della fisarmonica e, anche in questo caso, come s’innesta nel più ampio complesso strumentale? Il tema di Lettres comme a l’envers è quello della migrazione e dell’accoglienza. A questo proposito hai dichiarato che si tratta di “un omaggio a tutte quelle donne, a quegli uomini e a quei bambini che dopo infinite peregrinazioni raggiungono solo la nostra lontananza”. Sono stato molto colpito da queste parole. In quest’epoca, nell’ambito della musica colta, mi pare che sia sempre più raro l’impegno civile. Un impegno civile che ritrovo anche nel tuo Ouve! Espera! del 1997, dedicato a Ernesto Che Guevara a trent’anni dal suo assassinio…

Lo stesso uso un po’ “destabilizzante” e straniante della fisarmonica lo si può trovare negli altri due pezzi per grande ensemble, Lettres come a l’envers e Senti! Aspetta!. Il primo lavoro è stato suggerito da un’urgenza e da un invito. Sandro Gorli, leader e direttore del Divertimento Ensemble di Milano, storico gruppo il cui lavoro non sarà mai abbastanza lodato, mi aveva chiesto di scrivere una composizione su una presunta seconda fase della questione immigrazione. Sarebbe dovuta essere una riflessione sull’accoglienza, dopo il dramma spaventoso del viaggio (tema affrontato l’anno precedente da Alessandro Solbiati in un analogo progetto). La mia reazione è stata subito di entusiasmo per la proposta. Tuttavia, non sono riuscito in alcun modo a immaginare in positivo il tema e più che dell’accoglienza dopo il dramma e la tragedia, ho visto la distanza, l’indifferenza, la durezza della nostra società nei confronti di tanto orrore e di tanto dolore. Ho pensato senza esitare a un autore e a un libro per me veramente determinanti: Rachid Boudjedra e il suo Topografia ideale per un’aggressione caratterizzata. Lo scrittore franco algerino affronta, in un libro inesorabile e straordinario, il tema dello spaesamento. Boudjedra, oltre che darmi subito il permesso di utilizzare e di “smembrare” il suo testo, ci ha fatto l’onore di partecipare alla prima esecuzione del pezzo.

Senti! Aspetta! per pianoforte solista ed ensemble risale al 2019 ed è anche l’ultimo tuo brano in cui compare una parte per fisarmonica, prima di quello per Fanny Vicens…

Nel caso di Senti! Aspetta! la storia è molto diversa. La prima parte di questo lungo lavoro di circa 45’ è stata concepita per solo pianoforte ed è una commissione SIAE Classici di oggi. Il pezzo era dedicato a Mariagrazia Bellocchio, che lo ha eseguito magnificamente subito dopo la terribile fermata generale dovuta alla pandemia. Da quella esaltante, devo dire, esperienza con il solo pianoforte, ho ricevuto la richiesta di un altro pezzo per ensemble. La mia decisione è stata quindi quella di continuare Senti! Aspetta! immergendo il pianoforte solista in un gruppo strumentale. La seconda parte con ensemble ha quindi una durata di 25’. Lo scorso maggio il pezzo è stato eseguito nella sua “nuova” totalità e senza interruzioni in una serata dedicata. Anche qui la fisarmonica è stata per me determinante nella costruzione di questo habitat o paesaggio sonoro nel quale far sprofondare il pianoforte solista. Un risultato generale davvero molto sorprendente e appagante.

Prima di salutarci, vorrei approfondire alcuni aspetti della tua arte che non riguardano, necessariamente, la fisarmonica. “Perlustrando” il tuo catalogo, ho notato una spiccata attenzione nei confronti dei testi letterari. Oltre a quelli che hai già menzionato, García Lorca, von Hofmannsthal, Pessoa e altri ancora…

Tutto quello che mi colpisce non può non entrare in ciò che faccio e in ciò che scrivo. Sicuramente le letture ci colpiscono a volte inesorabilmente e a volte ci segnano nel profondo. Ma questo vale un po’ per tutto, come dicevo. Le esperienze di viaggio, che vorrei fosse la mia attività principale, le esperienze visive, le arti plastiche, figurative in genere, le culture lontane, tutto questo deve far parte del tessuto di chi ha l’ambizione di scrivere e rubare un po’ di tempo a un pubblico. I riferimenti sono tanti, alcuni li citi, ma non vorrei dimenticare Luis de Gongora, le incisioni di Max Klinger, gli scritti di Oliver Sacks, il teatro di Oscar Schlemmer, Maria Maddalena de’Pazzi, Robert Walser, Rachid Boudjedra, Antonin Artaud, Mark Rothko…ma mi fermo qui.

La nostra sintonia continua: Antonin Artaud e Oliver Sacks (soprattutto Musicofilia, che è la sua prima raccolta di saggi che ho letto), sono anche due mie profonde passioni. Un altro aspetto che m’interessa particolarmente è quello della tua formazione: quali sono stati e quali sono i tuoi punti di riferimento? Ho letto, sempre scorrendo il tuo catalogo, il nome di Duke Ellington…

La mia formazione spero sia “in progress”, naturalmente. Il mio approccio alla musica, ma a tutto, vorrebbe essere “olistico”, se è lecito usare questo termine in questo caso. Non riesco a scindere completamente gli stimoli sensoriali, intellettuali, umani, sociali. Confermo ciò che detto appena qui sopra: tutto, ma davvero tutto è formazione. Per questo motivo i miei punti di riferimento sono infiniti, ogni giorno posso dire di trovare il mio maestro/guida in ciò che leggo, vedo, sento. La mia formazione professionale vera e propria, quella da musicista, si è avvalsa di maestri veramente meravigliosi e straordinari, Giacomo Manzoni e Bruno Canino soprattutto, sono stato molto fortunato. Ma ormai risale a molti anni fa e posso chiamarla più propriamente “imprinting”. Ora invece continuo a formarmi, appunto…

Come sintetizzeresti la tua poetica? Qual è il “soffio vitale” che sottende alla tua musica?

Negli ultimi anni mi sono ritrovato a riflettere molto, come forse ho già detto, sul principio di forma, di struttura. Il concetto di forma musicale da sempre, o, meglio, negli ultimi tre secoli, si è retto sul principio di memoria a breve termine e sulla durata di ritenzione dell’informazione sonora. La memoria sarebbe così l’utensile necessario alla formalizzazione, alla rappresentazione e alla gestione del tempo. La memoria dà forma alla musica. Forse. Tuttavia mi sono concesso un’altra possibilità, quella di una musica che si manifesti nel momento in cui “suona” e non a vibrazioni estinte, a composizione finita, quando le strutture logiche della forma si sarebbero pienamente manifestate e le relazioni interne pienamente realizzate; cercherei di fuggire dal paradosso di qualcosa che esiste solo quando non suona più, quando non vibra più nell’aria, a suono morto, un corpo (sonoro) che non è più corpo, ma memoria. Allora cerco un ascolto diretto che non sia  mero immagazzinamento di eventi sonori senza suono. Mi interessa una successione di istanti in cui le relazioni causali e le funzioni formali siano ridotte al minimo così come vorrei che fosse ridotta a minimo l’idea di struttura intesa come oggetto plastico, tridimensionale, più prossima al dominio dell’occhio che a quello dell’orecchio. Vorrei proprio un ascolto di istanti, non necessariamente connessi, e delle ragioni “locali” del suono. Il suono esiste solo nel momento in cui si manifesta, nel tempo che lo produce; è l’ascolto che induce anche ad abitare un continuum, una durata, una successione di anelli di catene di associazioni e di assonanze definite solo dal nostro “esserci”: un continuum di infiniti momenti e di “infiniti possibili”. Forse citare Tadeusz Kantor, il grande regista e artista polacco, nel suo testo Contro la forma, mi aiuta: “…sospetto che la forma fosse anche un paravento dietro al quale, da una parte, gli artisti si nascondevano alla loro epoca e alla intolleranza, col quale, dall’altra, quell’epoca si assicurava contro il fenomeno inspiegabile, vivo aldilà di ogni norma, che è la creazione. Non ho più dubbi, anzi sono sicuro che oggi la forma insieme alla sua funzione isolante ha perso anche la sua ragione d’essere”. Kantor sintetizza magnificamente quello che vado cercando nella composizione: il flusso di istanti, non il contenitore di oggetti come potrebbe esserlo la struttura. Non più un’azione della memoria, ma un’ascolto che sia nel presente, nel momento esclusivo in cui il fenomeno si manifesta, in cui esiste. Nel mio concerto per violino e orchestra Dialoghi con il respiro, che finalmente, dopo i rinvii per i motivi che tutti conosciamo, vibrerà nell’aria alla fine di questa primavera, ho portato avanti ancora questa idea così come ho tentato di radicalizzarla nel lavoro per ensemble, voce ed elettronica, presentato proprio a Nuova Consonanza, dopo il concerto di Fanny Vicent, intitolato Illeggibile sole. Questo primo frammento è solo l’inizio del grande progetto che sto portando avanti con il Syntax ensemble. Sarà un lavoro di grandi dimensioni, un’ora di musica senza interruzioni, costruito interamente su una sorta di lettura (non esplicita, ma “latente” o mentale) de L’homme aproximatif di Tristan Tzara.

Concludendo: nuovi progetti per la fisarmonica?

Sicuramente continuerò a lavorare con la fisarmonica, come ci siamo ripromessi Fanny e io dopo la bellissima esperienza romana. Lo farò veramente con enorme piacere. Questo strumento sta rivelando molti angoli a me poco noti e molte potenzialità ancora da scoprire e sviluppare. E la fisarmonica microtonale in particolare sarà certamente al centro di nuovi lavori e di nuove sfide.