La fisarmonica: preziosa e duttile

Intervista a Stefano Bonilauri

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Stefano BonilauriStefano Bonilauri è nato a Reggio Emilia nel marzo 1964 (auguri per il suo recentissimo compleanno) e si è diplomato in Pianoforte, Musica Corale e Composizione. Ha vinto numerosi premi prestigiosi e ottenuto commissioni da altrettanto prestigiose istituzioni culturali, anche internazionali. Nonostante non sia un fisarmonicista, ha scritto moltissimo per il nostro strumento. Naturalmente, è di questo che parleremo in modo particolare. Ma, prima di arrivare al tema centrale, vorrei conoscere meglio il Maestro Bonilauri, a partire dalla sua formazione.

Tra i suoi Maestri ci sono nomi eccellenti. Ne cito due tra tutti: Armando Gentilucci – la cui Guida all’ascolto della musica contemporanea rappresenta, per me, una sorta di Bibbia – e Alessandro Solbiati. Che ruolo hanno avuto sulla sua formazione e che cosa le hanno trasmesso sopra ogni altra cosa?

Gentilucci è stata una figura “naturale”, uso questo termine come quando ci si trova nella natura: ovvero generalmente a proprio agio nonostante essa possa meravigliarci e a volte impaurirci. Questo per varie ragioni: perché l’ho conosciuto prima come direttore del mio Conservatorio, poi come insegnante a un corso estivo al G.A.M.O. di Firenze e, inoltre, come amico, nonostante la differenza di età. In questi tre modi è entrato nella mia vita, quindi direi nel modo più completo possibile. Con Alessandro Solbiati (più vicino a me come età) ho frequentato gli ultimi due anni di Composizione a Bologna. Con lui ho sperimentato il rigore e la passione, soprattutto attraverso le correzioni delle composizioni, mie ma anche di tutti i miei compagni, perché Solbiati trovava sempre delle cose utili da suggerire malgrado le partiture fossero di differente carattere e fattura, e per i miei occhi inesperti era sempre motivo di sorpresa; mi ha arricchito anche per la mia professione di insegnante.

Nella sua musica c’è qualcosa di riconducibile a loro?

In Gentilucci scopro anche oggi, a distanza di trentaquattro anni dalla sua scomparsa, che alcuni aspetti della sua musica mi sono molto famigliari, come se certe idee le sentissi come mie. Da Solbiati ho acquisito un rigore della forma, un’evoluzione lineare che in ogni mia opera cerco di mantenere.

E quali altri grandi compositori – spaziando dalla musica antica al Novecento – hanno contribuito alla sua formazione e in che cosa, in modo particolare?

L’elenco è lungo, perché fin da quando ho cominciato ad ascoltare musica ho voluto provare a “ripeterla”. Così a dodici-tredici anni, avendo ascoltato prevalentemente Vivaldi, tutto proveniva da lui di quello che scrivevo; poco dopo, Johann Sebastian Bach, che per il suo connubio tra coerenza, ricchezza e fluidità per me era un vero miracolo; poi Johannes Brahms, una passione giovanile totalizzante, tanto che il suo modo di elaborare e intrecciare è diventato per me quasi un luogo dove abito senza saperlo. Brian Ferneyhough per avere infuso passione ed energia in un ambito (quello dello strutturalismo) che sembrava non potesse averne in quel modo, mi ha affascinato e mi affascina tuttora tanto che scopro con gradevole sorpresa di passare questa fascinazione ad alcuni miei allievi. Helmut Lachenmann per la capacità di far coincidere una riflessione sulla musica con il risultato artistico, che significa creare una forte prospettiva di evoluzione. Poi, sicuramente, Xenakis per la sua energia diretta inarrestabile, George Benjamin con la sua musica così trasparente e perfetta, come rinascesse da zero. Le mie ultime due passioni sono Anton Bruckner (e credo che sarà una passione inestinguibile) e George Aperghis, che ho conosciuto personalmente e con il quale condivido l’interesse per la teatralità intrinseca in ogni strumento, primo fra tutti la voce.

Il catalogo delle sue opere si apre nel 1986 con Toccata per pianoforte. Qual era, allora, l’oggetto della ricerca musicale del Bonilauri ventiduenne? E qual è quello di oggi?

All’epoca di Toccata avevo ventidue anni e avevo tentato precedentemente una composizione per oboe, ma mi sono indirizzato al pianoforte perché era lo strumento col quale stavo completando gli studi (la composizione per oboe era fallita proprio per la distanza da questo strumento). E da allora, gradualmente, ho scritto per strumenti con i quali potevo entrare in contatto direttamente, sia attraverso la stretta collaborazione con gli esecutori, sia in diretto contatto con lo strumento. Questo è rimasto il mio obbiettivo fino a oggi dove cerco un’interazione tra strumento voce e corpo dello stesso esecutore. Significa essere il più vicino possibile alla fonte, strumento-voce-corpo, immaginarli insieme è immaginare di essere loro; in fondo, un compositore è un musicista che vorrebbe ESSERE lo strumento, l’esecutore o tutta l’orchestra.

Tra il 1986 e il 1992, prima di “imbattersi” nella fisarmonica, si succedono altre composizioni per strumenti ed ensemble diversi: dal flauto e dal violoncello soli alla grande orchestra, passando per due quartetti d’archi e un duo per clarinetto e pianoforte. Quali strumenti, in quel periodo, erano maggiormente oggetto della sua curiosità?

In realtà non c’erano strumenti che mi interessassero di più perché ancora non avevo un contatto vicino e continuativo con alcuni di essi in particolare, e alla fine è questo tipo di rapporto che crea un legame con lo strumento e con l’esecutore.

Il 1992 è, per lei, l’anno d’esordio con la fisarmonica. Inserita, tra l’altro, in un contesto del tutto particolare: quello di un coro. Parliamo di Astri. In quali circostanze avvenne questo incontro?

Astri è nato per sperimentare in un piccolo brano la scrittura per coro (visto che da anni cantavo in un coro amatoriale) e intendevo dare un supporto timbrico al coro che non volevo numeroso; dunque, la fisarmonica, grazie anche alla sua elastica articolazione delle dinamiche, mi è sembrata una scelta adeguata.

Quali aspetti della fisarmonica la colpirono per primi?

La presenza di due caratteristiche che solo questo strumento ha in questa misura: l’ampiezza di registro e di voci utilizzabili unita a una grande duttilità nelle dinamiche, nei modi di attacco e di articolazione del suono di cui il mantice è il fulcro espressivo. Tali caratteristiche, racchiuse in uno strumento relativamente piccolo, lo rendono molto prezioso e duttile, in quanto può esprimere le sue peculiarità in ogni genere di formazione, ovviamente anche solistica.

Come si preparò ad affrontare quel lavoro? Chi fu il suo “Virgilio” nel mondo della fisarmonica?

Ho conosciuto la fisarmonica classica prima con Paolo Gandolfi (che all’epoca era anche il mio direttore) e in seguito con un suo ex allievo, Mirko Ferrarini. È stato con Mirko che ho potuto coltivare con continuità la conoscenza della fisarmonica e delle partiture di molte composizioni ormai celebri della letteratura contemporanea per fisarmonica.

Che cos’è Astri e su quale terreno si confrontano le voci umane e quella dello strumento?

È una composizione per coro nella quale utilizzo una poesia di un mio ex compagno di scuola ora scrittore. Qui la fisarmonica l’ho pensata nel modo in cui talvolta gli ensemble vocali di musica rinascimentale aggiungono in raddoppio strumenti come il liuto, i flauti o l’organo; in genere, la loro presenza è sempre sullo sfondo, ma sono essenziali per dare una certa nitidezza e anche un carattere ritmico più definito, senza che ciò sia mai in evidenza. È questo che mi affascina.

Escludendo, perché destinato ad allievi, Ritornello (per violino, viola, violoncello, clarinetto, xilofono, fisarmonica e pianoforte) del 1994, arriviamo al 1995 con Quartetto III per 4 fisarmoniche. Per la prima esecuzione dell’anno successivo, scelse Ivano Battiston, Ivano Paterno, Mirko Ferrarini e Roberto Caberlotto, due dei quali, tra l’altro, Battiston e Caberlotto, a loro volta compositori. Avere a che fare con dei grandi interpreti – e compositori – è, senza dubbio, un valore aggiunto. Ma può dar vita anche a qualche… “complicazione”?

All’epoca Mirko e Roberto erano ancora allievi, Roberto l’ho conosciuto in quell’occasione come anche Ivano Paterno; con Mirko avevo già una certa confidenza e una stima da tempo (era stato anche mio allievo di armonia). La messa in opera della composizione è stata faticosa perché, come tutte la mie composizioni, nel momento della “verifica” con gli esecutori c’è sempre un margine d’indecisione dove bisogna scegliere lì per lì come procedere, nelle dinamiche, nei tempi etc., ma il rapporto con loro è sempre stato molto collaborativo e anche divertente, tanto che Paterno, ogni volta che ci vediamo, mi ricorda quell’esperienza come qualcosa di vivo. Quindi, nessuna complicazione, anzi, avere a che fare con persone che non solo suonano la musica, ma la pensano costantemente è un vantaggio per tutti, per me sicuramente.

Come interagiscono, in questo brano, le quattro fisarmoniche?

In effetti, ho trattato i quattro strumenti considerando la loro forte omogeneità e la loro possibilità di generare molte note e accordi, la quale, unita all’agilità che questo strumento possiede nei modi di attacco e nelle dinamiche, mi ha stimolato situazioni differenti. Per esempio, l’inizio è molto indistinto e sfuggente, appena dopo compare all’improvviso una sezione ossessiva dove le quattro fisarmoniche, in unisono, tengono per molto tempo un bicordo di semitono fino al massimo dell’intensità, seguono zone ritmiche e si conclude con un glissato discendente, che, passando da uno strumento all’altro, non si interrompe mai. Un mese prima che lo provassimo, ero a un seminario di Gerard Grisey al Conservatorio di Reggio Emilia e gli ho fatto vedere la partitura; si è molto incuriosito (essendo lui fisarmonicista) e avrebbe voluto ascoltarne il risultato.

Questa non è la sua unica composizione per 4 fisarmoniche: c’è anche uno Studio per allievi del 2009 e ci sono anche, dello stesso anno, Breves…et…Longae e Quartetto III B del 2012. Com’era cambiata la scrittura per 4 fisarmoniche di Stefano Bonilauri nell’arco di oltre tre lustri?

Lo studio me lo ha chiesto Mirko Ferrarini per i suoi allievi ed è stato eseguito con precisione e intelligenza. Il brano prevede da parte degli allievi l’utilizzo di una barra del metallofono. Quando è stato rieseguito a Parigi nel 2012 da Anthony Millet, i suoi allievi hanno usato i crotali. Devo dire che gli studi per allievi (di ogni età) mi interessano sempre perché concentrano il compositore su pochi aspetti, che, però, hanno un valore basilare per gli allievi che li affrontano, e ogni volta vengono trattati come se fossero nuovi; questa freschezza mi entusiasma sempre. Per questo ho scritto un ciclo di tre composizioni Breves…et…Longae su richiesta di Stéphane Bonneau, un violoncellista francese di Poitiers che ha la piccola casa editrice Le Plac’Art e li ha pubblicati. Anch’essi utilizzano le barre ma in modo più articolato.

Torniamo un po’ indietro. Il 1998 è la volta di Solo IV. L’esecutore è Claudio Jacomucci, un musicista molto noto ai lettori di “Strumenti&Musica”. Di questo lavoro esiste anche una nuova versione del 2007, affidata alla fisarmonica di Mirko Ferrarini. Che cosa rappresenta questo brano nel “catalogo per fisarmonica” di Stefano Bonilauri e perché le due versioni?

Io faccio sempre fatica a comporre brani solistici, indipendentemente dallo strumento utilizzato, la troppa importanza che si gli affida mi mette a disagio, preferisco il duo (che in effetti abbonda nella mia produzione) e, infatti, la versione del 2007 modifica la precedente per migliorarla. Questa seconda versione è stata incisa da Stefano Di Loreto e in quell’occasione è stata qua e là ulteriormente modificata.

Differenze e similitudini tra le due interpretazioni?

Non glielo so dire, perché non ho mai avuto modo di ascoltare la versione di Jacomucci eseguita a Bruges.

Nel suo percorso compositivo gli archi sono molto presenti. A volte, anche in ensemble con la fisarmonica. Il violoncello, soprattutto. Se non vado errato, ho contato quattro lavori con questo strumento in organico: Quartetto V per due violini, violoncello e fisarmonica (1999); Sincrono II per violoncello e fisarmonica (2000); Duo per violoncello e fisarmonica (2002); Pas de Trois per fisarmonica, pianoforte, marimba, flauto, clarinetto, violino, viola e violoncello. Sa meglio di me, che, tra le pagine più significative della letteratura per fisarmonica e archi c’è Sette parole (1982) di Sofija Gubajdulina. È nota la profonda spiritualità della compositrice russa e il simbolismo che affida agli strumenti. In questo caso, le corde del violoncello fanno pensare al sistema nervoso mentre il mantice della fisarmonica evoca il respiro e il sospiro. E, ancora, la personificazione della Trinità: il violoncello è il Dio-figlio, la fisarmonica il Dio-padre, gli archi lo Spirito Santo. Per lei, invece, qual è stato il “motore” di questo colloquio/confronto tra i due strumenti?

Io parto sempre dalle caratteristiche del suono di uno strumento e cerco di approfondirne la conoscenza nel modo per me più diretto e completo cioè continuando a scrivere per esso. In effetti, la corporeità anche fisica del violoncello mi ha sempre attirato (se avessi studiato un arco sicuramente sarebbe stato quello); è una corporeità che si lega naturalmente allo stesso corpo dell’esecutore/esecutrice e anche al suono stesso. Prova ne è che ho scritto due composizioni per l’ensemble francese NOMOS composto da dodici violoncelli…una meraviglia. Anche la fisarmonica possiede questa corporeità per le dimensioni, per come si abbraccia, ma la caratteristica del suono è diversa, può passare dal violento e tagliente a una staticità e purezza che ricorda certi suoni della musica elettronica. La mia sfida è riuscire ad articolare e avvicinare queste due dimensioni che possono essere anche molto divergenti.

Abbiamo iniziato a parlare di fisarmonica in associazione alla voce umana. Vorrei riprendere questo tema, che ricorre in altri suoi lavori: In-corporea e Tre minute, entrambe scritte, nel 2014, su richiesta di Patrizia Angeloni, con la voce della performer (e fisarmonicista) Ingrid Schorscher. La ricerca di quali forme di espressività l’ha condotta a scrivere questi due brani?

I brani dovevano far parte di uno spettacolo, con anche altre musiche non mie, che Patrizia e Ingrid stavano creando dal titolo Résonance. Ascoltando le capacità vocali di Ingrid ho deciso di creare una composizione dove la fisarmonica si unisse alla voce solo dopo che questa avesse preparato una certa tensione; infatti, quando s’incontrano tutto rimane molto febbrile e sfuggente, come se intorno a loro ruotasse un’energia costante, tanto che il brano termina nuovamente con la voce che molto gradualmente ci riporta a uno stato di quiete. Le Tre minute sono anch’esse all’insegna dell’esilità e rapidità, anche per la durata, un minuto, giusto il tempo di affacciarsi fuggevolmente alla finestra.

Due anni prima, aveva composto Doppio duo per due fisarmoniche e, aggiungerei, voci e corpi. L’esecuzione delle due fisarmoniciste, Terhi Sjöblom e Marija Kandić, prevede, infatti, anche una serie di movimenti e di espressioni vocali e l’uso percussivo degli strumenti. Quale poetica c’è dietro queste confluenze tra i modi della percezione visiva e sonora?

Non credo, o almeno ho delle forti riserve, nel connubio tra arte visiva e musica, nella maggior parte delle volte mi disturba l’una o l’altra perché si “contendono” il protagonismo. Credo invece che dove si svolge un ”teatro dell’esecuzione”, il visivo (l’esecutore) possa integrarsi con il sonoro, anche perché effettivamente ciò che vediamo – i movimenti, i respiri, i rumori – influenzano nell’esecutore stesso l’esito dell’interpretazione.

Che cosa c’è nel cantiere Bonilauri? Quali nuovi progetti per la fisarmonica (e non solo)?

In questo periodo seguo (per ora da lontano) la preparazione di Vento piangi veloce, un trio di fisarmoniche chiestomi da Patrizia Angeloni, Umberto Turchi e Stefano Di Loreto, che verrà eseguito il 19 ottobre 2023 a Modena per gli Amici della Musica. I musicisti devono utilizzare molto spesso anche la voce; inoltre, devono muoversi un po’ e da come hanno cominciato ad affrontarne la lettura intendono capirlo ed eseguirlo nel modo più coinvolgente possibile. Partendo con queste intenzioni, il lavoro con me sarà (da parte mia) sicuramente entusiasmante. Oltre a questo, ora sono impegnato nella scrittura di una composizione per organo dove intendo considerare l’eco della chiesa parte integrante del risultato; potrà uscirne qualcosa di suggestivo oppure, al contrario, un totale pasticcio di suoni…