Quel “miserabile baratto”

Luca Zoppelli, “Donizetti”

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Luca Zoppelli - DonizettiÈ la sera del 13 aprile quando inizio a buttare giù queste righe e al Teatro alla Scala ci si prepara alla prima di Lucia di Lammermoor nell’allestimento di Yannis Kokkos e la direzione musicale di Riccardo Chailly, che avrebbe dovuto inaugurare la stagione 2020/2021 e che fu rinviata a causa della pandemia. Gaetano Donizetti (1797-1848) compose quell’opera, una delle più note della sua produzione assieme a L’Elisir d’amore e a Don Pasquale, nel 1835. Lo stesso anno, il 26 settembre, fu rappresentata per la prima volta al San Carlo di Napoli. A questi tre famosissimi titoli si aggiunga Le Duc d’Albe (lasciata incompiuta, ma di cui “sono state realizzate ricostruzioni in grado di tenere la scena”) e poi… e poi, difficile citarne altri a meno che non si sia dei veri esperti o appassionati. Di Verdi o di Puccini, per esempio, anche chi non abbia mai goduto di un’opera lirica è in grado di fornire elenchi più ricchi (anche se, magari, confondendo, ahinoi, i lavori dell’uno con quelli dell’altro). Eppure, Donizetti, tra il 1816 e il 1843, compose più di settanta melodrammi (oltre a centinaia di romanze da camera e a numerose composizioni di musica sacra e strumentale). Nel suo Donizetti (il Saggiatore, 2022) Luca Zoppelli introduce le vicende relative al compositore bergamasco proprio partendo dalla considerazione che pochi, anche fra gli studiosi, conoscono il numero esatto delle sue opere, anche perché, “incontentabile”, le revisionava periodicamente, dando vita a nuove versioni e complicando, così, l’esistenza dei musicologi. Proprio la prolificità avrebbe procurato cattiva fama a Donizetti, che colleghi e critici (e anche alcuni ammiratori) coevi e futuri interpretarono come segno d’incuria o, perlomeno, di difformità qualitativa tra opera e opera. Tanto da soprannominarlo “Dozzinetti”. Luca Zoppelli, ça va san dire, non è d’accordo con i detrattori del compositore, la cui prolificità spiega con la concezione pragmatica di un uomo di spettacolo, che, periodicamente, vuole/deve offrire agli spettatori nuovi, stimolanti prodotti. Le partiture di Donizetti, insomma, sono proficue e funzionanti macchine teatrali i cui ingranaggi, pur non essendo tutti di indiscusso valore artistico, sanno toccare le corde dell’emotività. L’epoca per adottare questo tipo di condotta, però, era sbagliata: il clima culturale di quel tempo prediligeva l’idea di un repertorio accuratamente selezionato, fatto di partiture uniche e irripetibili com’erano ritenute, per esempio, quelle di Vincenzo Bellini (1801-1835), assai meno fertile – quantitativamente, s’intende – del collega concorrente.

Zoppelli ci ricorda altri elementi che avversarono la fortuna critica della drammaturgia donizettiana. Primi fra tutti la sua prevalente appartenenza al genere semiserio, caduto in discredito, e alla farsa con dialoghi parlati, entrambi acquisizioni di provenienza francese e, quindi, sciovinisticamente considerati in contrasto con “l’espressione naturale del genio della nazione”. Carlo “Collodi” Lorenzini, l’autore di Pinocchio, che si occupò di musica per le testate “Scaramuccia” e “Nazione” tra il 1853 e il 1860 (qualche anno dopo la morte di Donizetti, dunque) scrisse a proposito de La Favorita (1840): “vi senti dentro il maestro che abiura l’italianità per farsi francese. Miserabile baratto”.

In tempi più recenti, grazie al lavoro, anche filologico, di numerosi studiosi, non ultimo lo stesso Zoppelli, determinati schemi culturali (e mentali, mi sia consentito dirlo) sono stati ampiamente superati ed è stato possibile ri/leggere la produzione donizettiana sotto una nuova luce, mettendone in risalto “la varietà e pluralità di riferimenti”, le “innumerevoli radici” e le loro ramificazioni “in tutte le direzioni”. In ciò il testo di Luca Zoppelli è particolarmente interessante perché al all’approccio musicologico unisce quello sociologico, quello degli studi sull’industria culturale e quello dell’analisi delle strutture materiali e mentali dell’epoca interessata, che richiamano gli insegnamenti – sempre preziosi – della Nouvelle Histoire di Marc Bloch, Lucien Febvre, Fernand Braudel e Jacques Le Goff.

Questo testo, va ricordato, fa parte della collana «L’opera italiana» di cui sono stati pubblicati cinque titoli (di quello dedicato a Bellini abbiamo già scritto QUI). Il loro curatore, Paolo Gallarati, è a dir poco modesto quando afferma che si tratta di un progetto editoriale rivolto al “lettore curioso, allo studente, all’appassionato”. Qui c’è materia, oltre che per queste categorie, per altre anche assai più esperte, pur essendo il linguaggio adottato comprensibile da tutti.

P. S. Mentre finisco la stesura di questa recensione, su Rai 5 si conclude la diretta differita di Lucia di Lammermoor. Applausi a non finire per i cantanti e per l’orchestra diretta da Riccardo Chailly. Qualche fischio per Yannis Kokkos la cui regia è stata giudicata, forse a giusta ragione, piuttosto statica.

Luca Zoppelli (Venezia, 1960), musicologo, è professore emerito dell’Università di Friburgo (Svizzera). Codirettore dell’Edizione critica delle opere di Vincenzo Bellini (Ricordi), ha curato le edizioni critiche di Maria di Rohan di Donizetti e La sonnambula di Bellini (con Alessandro Roccatagliati). Autore di L’opera come racconto (Marsilio, 1994), ha pubblicato numerosi testi divulgativi per le principali istituzioni operistiche italiane ed europee.

 

Luca Zoppelli, Donizetti

Editore: il Saggiatore, Milano

Anno di edizione: 2022

Pagine: 584, ill., bross., € 40,00

 

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