“Charley Parker, prega per me” La beat generation, il be-bop, la strada

959

“Desidero essere considerato un poeta jazz che suona un lungo blues in una jam session la domenica pomeriggio”[1]. A pronunciare queste parole, nel 1959, è Jack Kerouac, poeta, romanziere, visionario, bevitore, buddista, vagabondo, “angelo di desolazione”, beat, insomma, ma potrebbe essere stato chiunque altro dei suoi compagni di scrittura e di strada.

Jack Kerouac O di vita, per dirla con una parola sola. Per loro il jazz, il be-bop in particolare, non è semplicemente la «colonna sonora» di un’«avanguardia letteraria»; be-bop e beat generation si fondano, sì, in contesti sociali e culturali diversi, ma si fondono in un’unica new vision, che opera una frattura con i valori ed i linguaggi dominanti, “per cantare” ha detto Fernanda Pivano le “liberazioni da tutto”[2].Pivano Leggere (meglio se ad alta voce) una pagina di Kerouac è come ascoltare un assolo di Charlie Parker: il fraseggio dell’uno è quello dell’altro, le pause sono ridotte al minimo, il brano (s)corre tutto d’un fiato (salvo interrompersi bruscamente), poco importa se battuto sui tasti di una macchina per scrivere o su quelli di un sax. L’addio alla struttura tradizionale del romanzo è servito, così come quello ai ritmi delle grandi orchestre da ballo: è la strada che irrompe, prepotentemente, nelle note e nelle parole.

La seconda guerra mondiale è finita da poco e le grandi battaglie ideali, estetiche e culturali combattute dalla generazione precedente, vissute, oltreché narrate, dagli Hemingway, dai Dos Passos, dai Fitzgerald, si sono ormai consumate.Ernest Hemingway Gli U.S.A., ora, sono alle prese con la guerra fredda e con la conquista dello spazio, ma, soprattutto, con il tentativo dell’establishment di contenere, indirizzare ed uniformare le ambizioni sociali ed il modus vivendi degli americani, soprattutto di quelli appartenenti al ceto medio. Si cerca di annientare il valore delle aspirazioni individuali, di plasmare un mondo omogeneamente grigio in cui tutti stiano “bene ma non troppo” e desiderino solamente cose ordinarie e facilmente acquistabili a credito. Quel conformismo livellatore tormenta molti giovani e li soffoca, inducendoli ad un isolamento sempre più insofferente della mediocrità che si propone loro, ad un silenzio, inquieto e risentito, da «incompresi»[3]. La rivolta contro quella società anonima non assume connotati politici, ma si traduce in uno stile di vita che fa dell’estraniamento la propria bandiera. Jack Kerouac, Allen Ginsberg, Gregory Corso, Lawrence Ferlinghetti, Lucien Carr, William Burroughs, Ed Sanders, Frank O’Hara, Neal Cassady, Brion Gysin, Bob Kaufman, Peter Orlovsky, John Giorno, Alan Watts ed altri ancora, poeti e scrittori, si fanno cantori di questa generazione cui loro stessi appartengono, per la quale Kerouac, nel 1948, azzarda il nome di Beat Generation – poi usato impropriamente dai media – e che proietterà le proprie luci e le proprie ombre su tutti gli anni ’50 e ’60.Scrittori beat L’abuso di sostanze tossiche, come il rifiuto delle norme e della moralità convenzionali, fanno sì che quei giovani siano additati come dei criminali. Ma la “Beat Generation non è teppismo” scrive Kerouac. “I miei migliori compagni beat erano tutti gentili, bravi ragazzi, zelanti, sinceri […]. Prevedo che la Beat Generation, considerata pazzo nichilismo, […] diventerà la generazione più sensibile nella storia d’America e perciò non potrà che fare bene”[4]. Per Kerouac beat sta per beatitude, beatitudine. Come i loro coetanei, gli scrittori beat tentano disperatamente di affermare la propria identità, di trovare una via che li conduca alla salvezza da quei modelli sociali e morali che ripudiano, di distruggere in se stessi quanto vi rimane di immesso da «gli altri», di stimolare, anche artificialmente, ciò che di primordiale ritengono ci sia ancora in loro[5]. E allora la “beatitudine” è indotta dalle droghe, dall’alcool, dalla velocità folle o dall’inerzia totale, dal sesso promiscuo o dalla spiritualità Zen, dalla solitudine o da un’esasperata vita di gruppo, dalla frenesia del viaggio, emblema di una ricerca che non ammette soste e non conosce mete:

«Sal, dobbiamo andare e non fermarci mai finché non arriviamo.»

«Per andar dove, amico?»

«Non lo so, ma dobbiamo andare»[6].Jack Kerouac e Neal Cassady in viaggio

L’avidità di vita si trasfigura in autodistruzione, tutto è vissuto senza limiti e narrato senza censure. E poi c’è il be-bop, espressione, per i beat, di una libertà ancestrale perduta e mezzo per identificarsi con i modelli esistenziali rappresentati dal mondo dei neri. Già da qualche tempo, questo nuovo stile jazz ha esordito nei locali della 52ª strada a New York, sconvolgendo chi va ad ascoltarlo. Alcuni musicisti dell’orchestra di Woody Herman raccontano: “Appena fummo entrati, quei tipi afferrarono i loro strumenti e si misero a suonare quella loro roba folle. Uno si interrompeva improvvisamente, un altro cominciava a suonare senza una ragione al mondo. Noi non avremmo mai saputo dire quando un assolo avrebbe dovuto cominciare o terminare. Poi tutti quanti smisero di suonare di punto in bianco e se ne andarono dal podio. Ci spaventarono”[7]. “Quei tipi”, così perturbanti, sono Dizzy Gillespie, Charlie Parker, Thelonius Monk, Charlie Christian, Kenny Clarke, Bud Powell, Max Roach.Musicisti bop Sono giovani afroamericani che avvertono l’esigenza di evadere dalla prigione dello swing, ormai industrializzato e stereotipato dalle grandi orchestre bianche, per dare origine a “melodie bizzarre, difficilmente orecchiabili, costruite con frasi ‘staccate’, zigzaganti, estremamente dinamiche, caratterizzate da intervalli fino allora inconsueti; frasi che si reggono, collegandosi fra loro, in un equilibrio instabile, che sulle prime sconcerta”[8]. È così che i bopper strappano dal jazz l’etichetta di «espressione popolare» e considerano se stessi, per la prima volta nella storia di questa musica, musicisti “seri”, artisti, non semplicemente esecutori[9]. E, come accadrà pochi anni dopo per i beat, assumono atteggiamenti del tutto originali, diventando presto simboli di un radicale anticonformismo sociale, oggetto – come la loro musica – di derisione da parte dell’opinione pubblica più conservatrice. Musica e abitudini dei bopper seducono, invece, i giovani intellettuali bianchi alla ricerca di alternative alla vita “in abito grigio”, proposta loro dal sistema. È soprattutto Charlie Parker – detto “Bird” – il loro idolo.Charlie Parker Ecco come Leo Percepied, alter ego di Kerouac ne I sotterranei, racconta il suo primo incontro con lui: “E poi torniamo al Red Drum per il numero, a sentire il Bird che vidi distintamente […] fissarmi, guardarmi negli occhi, come se cercasse di vedere se veramente io ero quel grande scrittore che credevo di essere, come se conoscesse i miei pensieri e le mie ambizioni o mi ricordasse da altri locali notturni e da altre rive […]. Non uno sguardo d’insolenza, perché I sotterraneiil Bird re e fondatore della generazione bop o almeno del suo ‘linguaggio’, che ti studia il pubblico, ti studia gli occhi, gli occhi segreti lui-guardanti, e intanto sporge le labbra e fa lavorare i grandi polmoni e le dita immortali; quei suoi occhi distanti e curiosi e umani, il più gentile musicista di jazz che sia al mondo, vivo, e quindi naturalmente il più grande”[10]. Affascinante, talentuoso, narcisista, creativo, indisciplinato, ingordo di cibo, eroina, alcool e sesso, il sassofonista di Kansas City entra ed esce dagli ospedali psichiatrici e sembra incarnare il genio e la sregolatezza dell’eroe tragico, romantico o beat. Una vita e una musica in precario equilibrio fra allucinazione e coscienza, pervase da mostruosi fantasmi interiori, che lo condurranno, fatalmente, verso una morte prematura.

 

“Charley Parker, perdonami

Perdonami se non rispondo ai tuoi occhi

Se non ho dimostrato

Ciò che sai inventare

Charley Parker, prega per me

Prega per me e per tutti

Nei Nirvana della tua mente

Dove ti nascondi, indulgente e immenso […]

Charley Parker, libera dalla sventura

me, e tutti quanti”[11].

Come fosse una divinità, i beat venerano Charlie Parker. In vita e in morte. Nel 1955, Gregory Corso compone un requiem per il musicista appena scomparso:

“BIRD era più perso del suono

rompeva la barriera con un acuto di sax

BIRD era più su della luna

BIRD vagava anche sui tetti

come uno strano monaco s’inchinava

sax in mano, alto sopra tutti

a guardare quella gente sotto

con strani occhi socchiusi

dicendo fra sé: «sì, sì»

come se niente contasse assolutamente niente

[…].BIRD è morto/ BIRD è morto

[…] piangete per BIRD

perché BIRD è morto”[12].

E ancora, in un celebre brano di Sulla strada, in poche battute, Jack Kerouac traccia una sorta di cosmogonia del jazz con un linguaggio che riecheggia quello biblico, messianico.Jack Kerouac - On the road E il messia, ovviamente, è lui, Charlie Parker: “Una volta c’era Louis Armstrong che suonava come un Dio in mezzo alla feccia di New Orleans [… ]. Poi ci fu lo swing, e Roy Eldridge, vigoroso e virile, che imperversava con la sua tromba traendone tutto quello che essa poteva dare in onde di potenza e logica e sottigliezza […] Poi era venuto Charlie Parker, un ragazzo che abitava a Kansas City […] Charlie Parker che lasciava casa sua e veniva a Harlem, e incontrava il pazzo Thelonius Monk e l’ancor più pazzo Gillespie… Charlie Parker dei suoi verdi anni quando faceva il matto e camminava in tondo suonando. […] quel malinconico, angelico incosciente che racchiudeva in sé tutta la storia del jazz […]. Questi erano i figli della notte americana del be-bop”[13].Thelonius Monk

Ancora oggi, ciò che più colpisce nella musica di Parker è la continua rottura delle frasi, la discontinuità melodica e ritmica, l’alternarsi di impeto e quiete, l’incessante variazione dell’intensità dei suoni, la poliritmia, i tempi velocissimi, l’uso geniale dei silenzi[14]. È un linguaggio che nasce dall’esperienza, non dalle accademie. Kerouac, riferendosi al bop, scrive che la musica è “la tua saggezza, i tuoi pensieri. Se non l’hai vissuta non uscirà dal tuo strumento”[15]. I beat danno consapevolmente una struttura jazzistica al proprio stile. Fin dai loro esordi letterari, si sono esibiti in reading di poesia assieme a musicisti jazz, dai quali assimilano l’impostazione generale di quella che Kerouac chiama scrittura «spontanea».Reading February 1959 In versi o in prosa, le loro parole sono sempre incisive, serrate, con effetti di intensità, di vibrazione e di potenza allusiva[16]. La penna scandisce suoni secchi e rapidi, alternandoli a periodi lunghi – che evocano quelli di Proust – e un profluvio di variazioni incessanti fa sì che si fatichi a ritrovare il tema centrale; le parole si trasferiscono dalla mente alla carta senza soluzione di continuità, se non quella di “vigorosi” trattini – trascrizione dei rapidi respiri in un’improvvisazione bop – da preferire agli altri segni di punteggiatura, che, per Kerouac, confondono e separano arbitrariamente “strutture-frasi”[17].

Il flusso ininterrotto del jazz e della scrittura è anche quello del viaggio. Suoni e parole sono territori da percorrere e da esplorare incessantemente, come le strade. Per il beat è sempre il momento di partire. StradaBasta che con sé abbia della buona musica e dentro di sé una smania di esperienze e di ricerca che non si plachi mai: “Quando guidava Dean non avevo mai paura; era in grado di padroneggiare una macchina in qualsiasi circostanza. La radio era stata riparata e adesso aveva messo su un be-bop scatenato che ci spingeva avanti nella notte. Non sapevo dove ci stava portando tutto questo; non me ne curavo”[18].

 

NOTE

[1] Jack Kerouac, Mexico City Blues, Newton Compton, Roma, 1979, p. 15.
[2] Fernanda Pivano, Just A Little Beat. Quarant’anni di Beat Generation, conferenzatenuta in occasione della manifestazione “Scrittour”, Torino, Auditorium del Lingotto, 21 maggio 1995.
[3] Fernanda Pivano, “La «beat generation»”, prefazione a J. Kerouac, Sulla Strada, Mondadori, Milano, 1959.
[4] J. Kerouac, “Agnello non leone” (1958), in Scrivere bop, Mondadori, Milano, 1996, p. 52.
[5] F. Pivano, op. cit., 1959.
[6] J. Kerouac, Sulla Strada, Mondadori, Milano, 1959, p. 300.
[7] Arrigo Polillo, Jazz, Mondadori, Milano, 1976, p. 187.
[8] Idem, p. 198.
[9] LeRoi Jones, Il popolo del blues, Einaudi, Torino, 1968.
[10] J. Kerouac, I sotterranei, Feltrinelli, Milano, 1975, pp. 44-45.
[11] J. Kerouac, op. cit., 1979, pp. 343; 345.
[12] Gregory Corso, Poesie, Guanda, Milano, 1976, pp. 19; 23.
[13] J. Kerouac, op. cit., 1959, pp. 301-302.
[14] A. Polillo, op. cit.
[15] Marco Piani (a cura di), Kerouac. Vita, poetica, opere scelte, Il Sole 24 Ore (I grandi poeti), Milano, 2008, p. 83.
[16] F. Pivano, “Introduzione” a J. Kerouac, I sotterranei, Feltrinelli, Milano, 1975.
[17] J. Kerouac, “Fondamenti della prosa spontanea”, in op. cit., 1996.
[18] J. Kerouac, op. cit., 1959, p. 169.

 

PER APPROFONDIRE

BIBLIOGRAFIA

Emanuele Bevilacqua, Beat & Be bop. Jack Kerouac, la musica e le parole della Beat Generation, Einaudi, Torino, 1999.
William S. Burroughs, Il pasto nudo, Adelphi, Milano, 2001.
Alain Dister, La beat generation. Rivoluzione “On The Road”, Electa/Gallimard, Milano, 1998.
Allen Ginsberg, Jukebox all’idrogeno, Mondadori, Milano, 1965.
Allen Ginsberg, Facile come respirare, Minimum Fax, Roma, 1998.
Angelo Leonardi, La Beat generation il jazz la cultura nera, in “Musica Jazz”, anno XXXII, n. 10 (343), ottobre, 1976, pp. 23-26.
Fernanda Pivano, Beat hippie yippie, Bompiani, Milano, 1977.
Fernanda Pivano, C’era una volta un beat, Arcana Editrice, Roma, 1976.
Fernanda Pivano (a cura di), Poesia degli ultimi americani, Feltrinelli, Milano, 1964.

 

LINK AUDIOVISIVI

Wanted: Fernanda Pivano, di Sergio Macedone-Paola Orlandini (2004).

Jack Kerouac shooting pool (1967).

Jack Kerouac on Charlie Parker.

Jack Kerouac – McDougal Street Blues.

Jack Kerouac- American Haiku.

Allen Ginsberg and Neal Cassady conversation.

Beats in NYC. Allen Ginsberg, Jack Kerouac & Friends (1959).

Allen Ginsberg Reading Howl (Part 1).

Allen Ginsberg Reading Howl (Part 2).