La lotta degli spiriti: Sironi, Wagner e l’opera d’arte totale

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Sergio MacedoneNote d’Arte è la nuova rubrica dedicata al rapporto tra musica ed altre arti: pittura, scultura, architettura, fotografia, narrativa, poesia, teatro, senza trascurare qualche incursione nel mondo dei media; in quello della televisione, soprattutto, al quale va riconosciuto di aver inventato nuove modalità di rappresentazione e di aver offerto più ampie opportunità di fruizione della musica colta. La rubrica, dunque, non si occuperà solamente di grandi artisti (da Bernini ai più moderni Sironi, De Chirico, Picasso, Burri, tra i tanti altri) e registi «prestati» alla scenografia e alla messinscena del teatro musicale, ma anche delle relazioni, culturalmente più complesse ed articolate, tra movimenti artistici di natura formale ed espressiva diversa, ma con concezioni estetiche affini.

Sergio Macedone, laureato in Storia dell’Arte, è giornalista ed autore televisivo. Per Raidue, Raitre, Rai Educational, TeleMontecarlo e Sky 906 ha scritto docufiction, documentari, reportage e ha intervistato moltissime personalità del mondo della cultura, dello spettacolo, dell’economia e della scienza. È direttore responsabile di ASP. Rivista di Psicoterapia ad indirizzo dinamico. È stato anche Dirigente Cultura, Turismo e Relazioni Internazionali del Comune di Spoleto e ricercatore presso il settore cultura del CENSIS.
 
 
 
LA LOTTA DEGLI SPIRITI
Sironi, Wagner e l’opera d’arte totale
 
by Sergio Macedone

 

Mario SironiPittore, scultore, scenografo, costumista. Pianista mancato, forse. La passione per la musica, comunque, che manifesta precocemente, non abbandonerà mai Mario Sironi. Fin da giovanissimo, ama suonare Wagner al piano, assieme alla sorella maggiore, futura concertista. Sironi si forma sul maestro tedesco e si esprime anche in termini analoghi ai suoi: “L’arte non è abitudinaria e pacifica. È lotta e battaglia continua. Lotta degli spiriti in sé e fuori di sé” (Camesasca E., 1980, p. 331). “Quando si pensa a Sironi” – sostiene Mario De Micheli (2000, p. 56), – “è difficile togliersi dalla mente tale affinità con Wagner”.

La prima formazione di Mario Sironi avviene a Roma, dove la famiglia si trasferisce nel 1886, un anno dopo la sua nascita. È nella capitale che sboccia la passione del futuro artista per la filosofia e la letteratura (Schopenhauer, Nietzsche, Baudelaire e Leopardi, tra gli altri), per la musica e per l’arte. Nel 1903, ad appena diciotto anni, scrive ad un cugino: “Il mio maggior piacere è sempre stato quello di trattare di cose d’arte ed ho passato parecchie ore al tavolino quando altri alla mia età si divertivano. Ed era tanto grande in me questa passione e tanto l’arte mi sembrava cosa grande, sublime e inarrivabile che l’avevo sempre considerata una deità immensa a cui, a me povero mortale, non era purtroppo dato che di aspirare il soave profumo” (Camesasca E., 1980, p. 261). Abbandonati presto gli studi universitari di ingegneria, a causa di ripetute crisi depressive che lo tormenteranno per tutta la vita, si iscrive alla Scuola Libera del Nudo e comincia a frequentare lo studio di Giacomo Balla presso il quale conosce altri giovani artisti, tra i quali Umberto Boccioni e Gino Severini, con i quali, di lì a qualche anno, animerà l’avanguardia futurista. Subito dopo il primo conflitto mondiale, nei suoi dipinti si insinuano motivi propri dell’estetica metafisica, “che tendono a richiamarci fuori del tempo e dello spazio, dove un’anima arcaica sembra aver dato vita a corpi semplici e severi, come in un sogno” (Broglio M., 1919, p. 30).

È il settembre del 1919 quando Sironi lascia la capitale per Milano. È qui che l’artista aderisce al neonato fascismo, in cui scorge, illudendosi, la possibilità di vedere realizzati due sogni: quello di una rinascita dell’Italia e quello di dar vita ad un’arte per tutti, che abbandoni le case dei ricchi collezionisti e pervada gli spazi pubblici, le vie, le piazze, i muri. Influenze wagneriane sono vive anche in questa concezione. Richard WagnerPer il compositore tedesco, infatti, l’«opera d’arte del futuro» doveva essere un’espressione estetica in cui il «popolo» potesse vedere riflessa la propria identità collettiva, e che rivelasse la nascita di una nuova fase sociale, rigenerata e purificata (Panebianco B. et al.). A Milano nascono anche i paesaggi di periferie urbane, Mario Sironi - Paesaggio urbano con camion (1920-21)che Sironi espone per la prima volta nel marzo del 1920, nei quali Margherita Sarfatti (1920) ravvisa una tragica metafora della durezza dell’esistenza in cui l’artista infonde, però, “glorificazione”, una parola che la scrittrice prende in prestito, non a caso, da Nietzsche, attribuendole il significato di potenza e maestosità. Alla fine degli anni ’20, la pittura di Sironi assume tratti di carattere espressionista, contraddistinti da una forte tensione delle linee e dall’intensità della pennellata. Supera questa tendenza nel corso degli anni ’30, che lo vedono impegnato quasi esclusivamente in lavori monumentali di pittura parietale, le cui figure evocano, invece, la maestosità della statuaria classica.

Al termine della seconda guerra mondiale, la disfatta del fascismo turba sensibilmente Sironi. Di tutto ciò in cui ha creduto “non sono rimaste che macerie e paura” (Camesasca E., 1980, p. 330), scrive in un appunto di quell’epoca, e al vigore con cui, fino ad allora, aveva costruito le forme pittoriche subentra una prevalente disarticolazione delle stesse e dei parametri compositivi; alla ieraticità delle figure succede “un sentimento religioso, umanamente caricato” (Benzi F., 1993, p. 33). Sono anni durante i quali Sironi si esprime artisticamente in due differenti maniere, che, a volte, si intersecano: una recupera in parte il linguaggio delle pitture parietali, disponendo figure, architetture e paesaggi fortemente stilizzati; l’altra tende all’indagine esistenziale attraverso la deformazione delle proporzioni e dei lineamenti delle figure. Una sorta di ritorno alle suggestioni espressioniste, che si rivela anche nella pittura di paesaggi di montagne, intesi in un’accezione di assoluto e che Sironi stesso descrive come “inebriati da un senso di vacuità cosmica, wagneriana” (Benzi F., 1993, p. 33). L’influsso di Wagner, dunque, così importante nella formazione del giovane Sironi, è ancora e sempre presente nell’artista maturo. È così che l’approccio formale di stampo espressionista si sposa ad una poetica di matrice romantica: “Mi è stato rimproverato di non occuparmi di campi coltivati, pittoresco da giardino, da valle, da collina, casette sul mare e simili stupidaggini – ma di vedere soltanto rocce deserte altitudini desolate dove l’uomo si misura con la vastità dello spirito. Ebbene molti vengono a Cortina e dovrebbero aver visto una notte di luna piena e serena sull’immensa vallata dove come troni d’argento e di vetro le vette nevose ascoltano la voce di Dio nell’immenso spazio. Hanno visto e non hanno capito” (Camesasca E. 1980, pp. 333-334). Questa stessa, impetuosa visione della natura e della sua rappresentazione, Sironi la traspone anche nelle scenografie che disegna per la lirica. In una lettera del 1942 inviata a Mario Labroca, Sovrintendente del “Maggio Musicale Fiorentino”, l’artista raccomanda che l’esecutore dei suoi bozzetti per il Dottor Faust Dottor Faust atto I scena Idi Ferruccio Busoni non gli «accomodi» le scene “dove egli le trova squilibrate o forzate, o tirate nel disegno o nel colore. Certi terremoti sono la vita dell’arte e dell’emozione. Se si fa ordine e si mette ogni cosa a posto si esce dalla magia e ci si trova in un mondo banale” (Camesasca E. 1980, pp. 333-334). La scena del teatro musicale, per Sironi, deve essere estranea a qualsiasi rapporto con la realtà e trasfigurarsi in un spazio e in un tempo assoluti, dominio di esperienze emozionali: è “un’idea dello spazio teatrale come totalità del linguaggio” (Crespi Morbio V., 2011, p. 28), di origine, anch’essa, wagneriana. Per il compositore tedesco il dramma musicale, infatti, doveva essere un’opera d’arte totale, una realtà superiore, che di tutte le arti raccogliesse i pregi nel ritrovamento di un’antica unità perduta (Mila M., 1977) e in un quadro di ritualità collettiva destinato a consacrare un radicale rinnovamento della società. E proprio come Wagner, che “va a cercare i propri soggetti nel mito, in una fase aurorale dell’umanità, che meglio d’ogni altra risponde all’indeterminatezza della musica, scevra com’è da precisazioni cronologiche e di costume” (Mila M., 1977, p. 244), anche Sironi guarda ad una compiutezza scenografica mitica (Crespi Morbio V., 2011). Lui stesso scrive che le scene del Dottor Faust devono essere “ingrandite fino ad avere una proporzionalità spaziale adeguata con tutto l’insieme di ombre che le circonderanno. Possono ingrandirsi le due torri, l’arcone e anche la tenda che è irreale e di proporzioni mitiche” (Camesasca E., 1980, p. 246). Dottor Faust atto II scena IÈ una definizione che si può estendere all’intera opera di Sironi, dalla quale emerge la visione di un’umanità che ha smarrito la propria grandezza; di un tempo “che pretende all’eternità” (Camesasca E., 1980, p. 301); di un’esistenza – individuale e collettiva – tragica ed eroica, le cui origini ed il cui destino si identificano con il mito.

Il Dottor Faust non è l’unica opera per il “Maggio Musicale Fiorentino” per la quale Sironi progetta le scene. La collaborazione con la manifestazione toscana inizia nel 1933, anno della sua prima edizione. Sironi si confronta, in questa occasione, con la Lucrezia Borgia di Gaetano Donizetti. Per essa immagina una messinscena dai toni lunari e senza tempo (Bucci M., Bartoletti C., 1991), Lucrezia Borgia atto Ioperando “in tal modo” – scrive Elio Vittorini – “che non si distingueva tra la sua pittura e la musica di Donizetti, ci si chiedeva se quei fabbricati fantasmi non venissero evocati dai suoni, e qualche volta se quei suoni non fossero trasudati dalle oscure, gelide, tetre pareti. […] Le ombre si sono ingigantite, l’insidia è nell’aria stessa della notte […]: insomma da una grandiosità vittorughiana si è andati fino a una grandezza da Baudelaire” (Vittorini E., 1933). Quello stesso Baudelaire che riconosceva a Wagner e alla sua musica – come alla propria poesia – il potere di provocare il crollo dei confini tra i cinque sensi per cui un suono può evocare un colore o un profumo può suggerire un paesaggio.

Sironi non collabora solamente con il festival fiorentino. Altre Istituzioni liriche si avvalgono della sua opera. Per la tournée olandese (1934/35) del “Teatro Reale dell’Opera di Roma” l’artista aveva realizzato le scene per Tosca di Puccini, per la quale, però, dalle poche testimonianze sopravvissute, si può dedurre una sua insolita fedeltà alle indicazioni del libretto, con l’eccezione degli spalti e dell’angelo di Castel Sant’Angelo (III atto), sublimati in una soluzione di chiara matrice personale (Bucci M., Bartoletti C., 1991). Tosca atto IIIMa la prova decisiva per il Sironi scenografo arriva nel 1947. Nell’artista è ancora vivo un profondo malessere per il crollo delle proprie illusioni civili e politiche, quando la Scala lo chiama a misurarsi con Richard Wagner ed il Tristano e Isotta, la sua “opera più perfetta […], sorretta da una continuità nell’ispirazione unica forse nella storia del teatro musicale” (Mila M., 1977, p. 249). Quella scaligera del 1947 è una messinscena del Tristano e Isotta considerata ancora oggi irripetibile. La direzione dell’orchestra è affidata a Victor De Sabata, Victor De Sabatala regia a Hans Zimmerman, l’interpretazione a due voci d’eccezione: quella di Kirsten Flagstad (Isotta) e quella di Einar Beyron (Tristano).

Ricordando, probabilmente, l’immeritato insuccesso del Tristano e Isotta di Toscanini del 1923, le cui scenografie avveniristiche firmate da Adolphe Appia non furono apprezzate dal pubblico della Scala, De Sabata chiede a Sironi di concepire un impianto scenico tradizionale: un invito quanto mai dissonante con la natura stessa del pittore. Ciononostante, Sironi entra in piena sintonia con il direttore, il regista e l’intero cast ed affronta il progetto con entusiasmo. Sa che Tristano e Isotta rappresenta il primo, compiuto esempio della compenetrazione fra le arti propugnata da Wagner e comprende profondamente che quell’opera è la celebrazione del trionfo della diade Eros-Thanatos, Amore-Morte, “il poema della passione amorosa e della notte, intesa come simbolo dell’annientamento nella morte, cara agli amanti, cui è invisa la nemica luce del giorno” (Mila M., 1977, p. 249). Per essa Sironi immagina un allestimento visionario e drammatico. Una smisurata tenda rossa, distesa su tutta la superficie del boccascena, Tristano e Isotta, atto Ifa da sfondo al dialogo di apertura tra Isotta e Brangania. Al suo dischiudersi, una nave di foggia vichinga irrompe sulla scena. Su tutto incombe la gigantesca testa di drago della prora, che ha le fauci spalancate. Tristano e Isotta atto ILe sue fattezze e la sua collocazione hanno “qualcosa di talmente ancestrale che supera ogni riferimento all’arcaicità” (Bucci M., Bartoletti C., 1991, p. 122). Altrettanto evocatore di un mondo arcaico, oscuro e minaccioso è il bozzetto per la scena del II atto, in cui una selva “selvaggia” – per dirla con Dante – imprigiona i due amanti in un labirinto spettrale e senza via d’uscita. Tristano e Isotta atto IILa scena del III atto è dominata dalla presenza, in primo piano, di un grande tappeto. Siamo nei pressi di un castello diroccato, in prossimità del mare, ma entrambi questi elementi fungono, esclusivamente, l’uno da quinta e l’altro da sfondo, a suggerire la lontananza dei protagonisti e del loro dramma da qualsiasi legame con la realtà. Copertina del programma del XVI La scena, invece, è dominata dal tappeto, che si protende fino verso il proscenio, sul quale è adagiato il corpo di Tristano e sul quale anche Isotta morirà. È questa la vera intuizione drammaturgica dell’atto finale: circoscrivere uno spazio “di solitudine dove sola è possibile la verità dei protagonisti e dove tutto va a estinguersi” (Crespi Morbio V., 2011, p. 32). In una lettera che Sironi aveva scritto due anni prima sembra di poter leggere un’intima prefigurazione di questa rappresentazione: “Non c’è nessuno qui vicino a me ancora e sempre solitudine atroce e resistere resistere con l’anima devastata alla tempesta che non si ferma” (Camesasca E., 1980, p. 330).

Nel 1948, per l’XI “Maggio Musicale Fiorentino”, Sironi realizza ancora le scenografie per I lombardi alla prima crociata di Verdi e, nel 1950, quelle per un’altra opera verdiana, il Don Carlos. È il suo ultimo lavoro per il teatro musicale, se si esclude il bozzetto per la copertina del programma del XVI “Maggio” (1953). Verso la fine degli anni ’50 la sua salute, già minata fisicamente e psicologicamente, si deteriorerà progressivamente, fino a condurlo alla morte nell’agosto del 1961.

 

 

BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA
 
1.     Benzi F. (1993), Mario Sironi: il percorso della pittura, in “Mario Sironi 1885 – 1961. Catalogo della mostra, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, 9 dicembre 1993 – 27 febbraio 1994”.
2.     Broglio M., (1919 giugno-ottobre), Mostra Sironi, in “Valori Plastici”, Roma, n. VI-X.
3.     Bucci M., Bartoletti C., a cura di (1991), Mario Sironi per il teatro, S.P.E.S., Firenze.
4.     Camesasca E., a cura di (1980), Mario Sironi. Scritti editi e inediti, Feltrinelli, Milano.
5.     Crespi Morbio V. (2011), Mario Sironi alla Scala, Allemandi, Torino.
6.     De Micheli M. (2000), L’arte sotto le dittature, Feltrinelli, Milano.
7.     Mila M. (1977), Breve storia della musica, Einaudi, Torino.
8.     Panebianco B., Gineprini M., Seminara S., in “http://online.scuola.zanichelli.it/letterautori-files/volume-3/pdf-verde/letterautori_verde_volume3_musica-wagner.pdf”.
9.     Sarfatti M. (3 aprile 1920), La nuova galleria “Arte”, in “Il Popolo d’Italia”, Milano.
10.   Vittorini E. (2 luglio 1933), in “Il Bargello”, Firenze.