Intervista con Gabrio Taglietti su Tre Fantasie per fisarmonica da concerto

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La fisarmonica da concerto nella musica contemporanea

Quattro incontri con quattro compositori

di Corrado Rojac

 

PREMESSA

Corrado RojacAnche quest’anno, dopo il plauso ottenuto dall’iniziativa l’anno scorso, la redazione di Strumenti&Musica mi ha chiesto un contributo sulla musica contemporanea per fisarmonica. Ho accolto l’invito con gioia. Ho pensato di presentare alcuni pezzi, scritti per me da importanti compositori, che ho eseguito in prima esecuzione presso sedi prestigiose, quali l’Accademia Chigiana di Siena (Laboratorio di Composizione del M° Corghi), il Teatro Bibiena (Stagione del Conservatorio “Campiani” di Mantova), la Sala della Tromba di Trento (Ciclo “Musica Novecento”) e la Basilica di S. Silvestro a Trieste (Festival Trieste Prima).

Per l’anno 2016 si è concordato di presentare quattro compositori, con cadenza bimestrale. Si proporrà quindi Vincenzo Gualtieri, Gabrio Taglietti, Rolando Lucchi e Giorgio Colombo Taccani.

 

 

Chi è Gabrio Taglietti

Gabrio Taglietti, nato a Cremona nel 1955, ha studiato composizione presso il Conservatorio di Milano con Davide Anzaghi e Giacomo Manzoni. Le sue opere sono state eseguite in numerosi festival e stagioni concertistiche in Italia e all’estero, tra l’altro al Festival Gaudeamus (1976), al 5° Seminario Internazionale di Boswil (1978), a Radio France (1985), e più recentemente a Praga, Helsinki, Tokyo, Città del Messico, Madrid e Miami.

Nel 2001 Ricordi ha pubblicato un cd con un’antologia della sua musica da camera (Marmi, Musica da camera 1985-1998), da cui Gianni Celati ha tratto la colonna sonora del film Visioni di case che crollano; nel 2008 Stradivarius ha pubblicato un cd con i suoi Studi per pianoforte (Studi per il XXI secolo). L’Allegro con fuoco (completamento di un incompiuto di Mendelssohn) è stato inciso da Roberto Prosseda per la Decca. Di prossima pubblicazione il cd Le galline pensierose (su testi di Luigi Malerba) per La Bottega Discantica.

Oltre alla composizione, Taglietti ha tradotto dal tedesco molti saggi di argomento musicale, tra cui gli Scritti critici di Schumann e il carteggio Schönberg-Mann. Dal 1996 insegna composizione al Conservatorio di Mantova.

 

L’INTERVISTA

Gabrio TagliettiCome descriveresti il panorama della musica contemporanea del momento e il suo sviluppo negli ultimi decenni?

La musica è sempre stata contemporanea, solo da un secolo a questa parte la si considera un genere particolare. Ma credo che ciò sia fonte di gravi conseguenze. Il XX secolo ha visto una scissione drammatica tra musica d’arte e musica d’uso, il che se da una parte era un bene, nel senso dell’affermazione della totale e incondizionata libertà dell’artista, è stato viceversa un male nei suoi effetti sul rapporto con gli ascoltatori.

Se il pubblico (e intendo il pubblico normale, naturalmente, non gli addetti ai lavori) non sente la necessità di andare ad ascoltare opere nuove, quale futuro può esistere per la musica? La stessa arte del passato rischia di isterilirsi se non viene vitalizzata da un rapporto fecondo con la nuova produzione. Il compito che abbiamo di fronte è esattamente questo: ricostruire un rapporto di fiducia. Come questo debba poi avvenire è naturalmente un altro problema.

Negli ultimi decenni non mi sembra che la situazione sia cambiata in modo sostanziale, anzi forse si è per certi aspetti aggravata. Le posizioni ‘radicaliste’ e ‘semplificatorie’ si sono vieppiù estremizzate, con effetti a mio parere deleteri. Da una parte, cioè, abbiamo assistito a un’escalation della negazione di una qualunque bellezza, dall’altra una semplificazione che rasenta la mistificazione. Fenomeni come Billone e Whitaker li vedo antitetici ma complementari, specularmente identici.

Come vedi il tuo operato compositivo all’interno del panorama generale?

L’unica risposta sensata, nella dicotomia che ho delineato, è a mio parere l’autenticità; per quanto tale termine possa apparire ambiguo mi sembra descrivere precisamente ciò che io ricerco. Fra due alternative entrambe fallimentari seguo semplicemente la strada che mi porta alla conoscenza più profonda di me stesso. Naturalmente ‘essere se stessi’ non è un dato automatico, ma è il risultato di una ricerca, spesso lunga, faticosa, e perché no anche dolorosa. Ed è l’unica cosa che abbia senso.

Per quanto mi riguarda non mi pongo mai il problema di scrivere musica facile o complessa. Mi chiedo soltanto, ma implacabilmente: ho detto del modo più chiaro ed evidente ciò che volevo dire? Credo che solo in questo modo, assumendosi pienamente la responsabilità di ciò che proponiamo all’ascolto senza inutili banalizzazioni e senza reticenze ormai scadute a luogo comune si possa tentare di ricostruire un rapporto positivo con il momento dell’ascolto. Le accademie, i manierismi, sono i peggiori nemici dell’arte.

Io scrivo per l’ascolto, non per dimostrare una teoria. Diffido di chiunque tenti di convincere della bontà della propria musica dimostrandone la validità in base a principi teorici, a meno che questi non trovino un preciso riscontro nella musica stessa. La nostra musica deve convincere perché è bella, non perché è giusta. La sfida che vorrei vincere è che la mia musica sia preferita alla musica di consumo perché è più bella. Punto.

Naturalmente è chiaro che anche il concetto di bellezza è un concetto stratificato, ben diverso dalla ‘belluria’. Della bellezza io ho un’idea ‘forte’, non certo banalizzante: per me essa si identifica con un rapporto fecondo e necessario tra la superficie e la profondità. Una bellezza senza profondità ha vita corta, una complessità senza superficie finisce per autonegarsi.

Spesso mi rappresento il lavoro compositivo come un’immersione nel profondo dell’inconscio acustico, in quei meandri della memoria dove il canto dei grilli di un ricordo d’infanzia convive e si incrocia con un frammento di una sinfonia di Mahler, dove il suono di una porta che sbatte si trasfigura o si combina con il ritmo di un gruppo rock. Un’operazione, dunque, che consiste nel riportare alla luce reperti della memoria personale depurandoli delle scorie che li hanno resi irriconoscibili o li hanno trasformati in qualcosa di nuovo.

La memoria ha anche un altro ruolo nella mia musica. Ricordiamo infatti che la musica è un’arte che si svolge nel tempo, e dunque io mi pongo il problema di come dare un senso all’evoluzione nel tempo della musica. Che per me non vuole essere puramente lineare ma pluridimensionale, aprendosi a relazioni interne. Quindi una musica fatta di rimandi, di ritorni e perché no di riprese.

Sento a me estranea qualunque musica neghi – in un senso o nell’altro – questa dimensione temporale. Non mi riconosco nella monodirezionalità dell’informale e nemmeno nella totale immobilità del new-age.

Puoi descriverci le tue Tre fantasie per fisarmonica?

Anche nelle Tre fantasie ho cercato di mettere a fuoco nel modo più evidente diversi oggetti musicali di cui cerco il senso profondo, la forma perfetta, l’evidenza più vivida ed espressiva. Questi oggetti – reperti mnestici di cui esploro il senso – vengono poi messi in scena secondo un percorso narrativo o drammaturgico che delinei un decorso temporale.

I titoli attingono in parte alla mitologia personale, in parte a luoghi della memoria collettiva e servono a suggerire un atteggiamento d’ascolto, vuoi per analogia vuoi per contrasto o depistaggio.

Il titolo del primo pezzo, Il ritorno, mi piaceva come suggestione poetica, e comunque perché in parte riprendeva un’idea musicale che mi è riapparsa prepotente a distanza di anni. E in parte naturalmente perché alla fine ci troviamo di fronte a un ritorno all’inizio: chi siamo dopo ciò che è avvenuto un fatto decisivo? Siamo ancora gli stessi quando ritroviamo un amico, una donna amata, dopo anni di distanza? La fitta rete di oggetti che si contrappongono attiva un labirinto inesorabile che conduce a un anticlimax, da cui riparte un tentativo di ritorno all’inizio.

Cristallo di rocca, come è noto, è un bellissimo racconto di Adalbert Stifter da cui anni fa Bussotti trasse un altrettanto splendido balletto. L’idea iniziale era semplicemente di descrivere l’opalescenza di un cristallo; l’associazione involontaria ha evocato il racconto di Stifter, e questo ha poi avuto importanti conseguenze. All’inizio ascoltiamo un cluster cromatico che si trasforma internamente lasciando trasparire imprevedibili consonanze e armonici strani: è come se vedessimo un oggetto trasparente che ruota su se stesso dando origine a magiche rifrazioni. Ma poi l’atmosfera invernale del racconto stifteriano prende il sopravvento, e al centro del pezzo si scatena perciò una terrificante tempesta di neve, a cui segue un ritorno all’inizio: era solo un sogno.

Gran Teatro dei Burattini è infine un omaggio al libro preferito della mia infanzia, Pinocchio, uno dei personaggi in cui prima o poi vorrei trasformarmi. Inoltre ripensiamo a quanto ho detto prima: il compito del compositore è quello di inscenare un teatro delle proprie ossessioni acustiche offrendolo al rito dell’ascolto. Mi sembra che Fellini dicesse qualcosa del genere: che il regista è una specie di burattinaio dell’anima: ecco. Anche qui una sorta di forma ternaria: un inizio pseudodiatonico in cui tasti bianchi e tasti neri si contrappongono drammaticamente segue una fase indistinta, come un mormorio lontano, a cui segue un paradossale ritorno all’inizio.

Potresti, a grandi linee, darcene un’interpretazione analitica?

Dunque, mi verrebbe la tentazione di risponderti con un secco NO. Nel senso che sulla base di quanto ho detto credo sia chiaro che il risultato a cui miro è una musica inanalizzabile – non per eccesso di complessità, ma per eccesso di evidenza. Una musica che sia talmente evidente da rendere totalmente inutile, in quanto tautologica, qualunque analisi.

Tenterò comunque di risponderti. Di solito alterno due-tre oggetti, a un certo punto ne abbandono uno e ne introduco uno nuovo, creando così una rete che si autoalimenta e in cui cerco di introdurre un rapporto di tensione che deve in qualche modo portare a una svolta: un’interruzione, un’esplosione, un disfacimento o un parossismo che aprono una nuova regione narrativa. Spesso per ritornare poi alla situazione iniziale, quasi sempre portata però al paradosso.

Con le Tre fantasie ci troviamo di fronte a tre forme ternarie sostanzialmente brahmsiane, se mi è consentito il paragone, ma in cui la semplicità della struttura simmetrica tenta di superarsi attraverso logiche sghembe, non perfettamente a fuoco. L’accostamento incongruo è qualcosa che mi viene spontaneo, ma è anche attentamente ricercato. Vi ricordate quella scena del Processo di Kafka in cui lui scopre che lo studio dl pittore Titorelli comunica con il tribunale? È del tutto illogico, eppure appare del tutto naturale. Ecco: la mia idea musicale è qualcosa del genere.

Potresti illustrarci alcuni tratti salienti del tuo rapporto con Donatoni?

La domanda giunge a proposito, perché proprio Gran teatro dei Burattini era pensato come un omaggio a Franco Donatoni, legato a un ricordo personale. Nel 1974 andai al conservatorio di Milano per incontrare Donatoni con cui avrei voluto studiare. In quell’incontro, davanti al maestro e ad alcuni suoi allievi, ricordo che la sensazione fu di entrare nel teatro di Mangiafuoco: lui era naturalmente il terribile burattinaio, gli studenti erano i burattini e io… Pinocchio! Poi la storia è andata in modo un po’ diverso, nel senso che con lui ho avuto un rapporto di studio ‘clandestino’, nel senso che lo frequentavo privatamente, senza mai essere ufficialmente suo allievo. Però è stato uno dei musicisti che più mi ha influenzato, direi assieme a Ligeti.

Oggi cosa vedo di lui nella mia musica? Senz’altro la passione per il ritmo, che nella sua musica aveva una forza primaria, la riscoperta della figuralità, un diatonismo non tonale di derivazione bartokiana, una predilezione per il suono vivido, che nasce dalla natura dello strumento e non contro di essa.

Vedo anche molte differenze: della scrittura a pannelli, che pure inizialmente mi ha molto influenzato, vedo oggi molti limiti e tento di superarla nei modi sopra descritti. Poi vedo anche molte contraddizioni e ambiguità nel suo pensiero: le posizioni negative agivano ancora pesantemente sul suo modo di descrivere la musica. La negatività ha fatto il suo tempo, e oggi dobbiamo senz’altro andare in direzione di una precisa assunzione di responsabilità.

Che ne pensi dello strumento fisarmonica?

È uno strumento magnifico, capace di produrre sonorità popolari, suoni d’organo o situazioni che sembrano elettroniche. E anche uno strumento che nelle mani di un virtuoso ha possibilità tecniche immense.

Sul piano tecnico tu sei in qualche modo coautore delle Tre fantasie, in quanto la conoscenza della fisarmonica la devo a te, quando eravamo colleghi al conservatorio di Mantova, e infatti tu ne sei stato il primo e per ora unico interprete.

In particolare vorrei sottolineare la tecnica utilizzata nel terzo pezzo, che utilizza in modo non convenzionale i bassi tradizionali, sovrapponendo un basso semplice e una triade maggiore a distanza di terza, andando nell’ordine dei tasti della mano sinistra e compiendo l’intero circolo delle quinte. Una tecnica che mi permette di utilizzare in modo non particolarmente complesso armonie pseudodiatoniche vagamente rock.

Quali altri tuoi pezzi sono legati alla fisarmonica?

Nel 2007 ho scritto un oratorio, Amore langueo, su testi della Beata Osanna Andreasi, un’interessante figura di mistica del Quattrocento mantovano. L’organico prevedeva due voci recitanti, un soprano, suoni elettronici e un ensemble in cui erano presenti anche due fisarmoniche. L’esecuzione fu a cura di un gruppo strumentale formato da studenti, e i due fisarmonicisti erano infatti due tuoi allievi, Ilaria Nardi e Attilio Amitrano: ne abbiamo tratto anche un cd pubblicato dal conservatorio e dall’Associazione Casa Andreasi.

Ho utilizzato una coppia di fisarmoniche anche in un lavoro più recente, un melologo comico su testi di Luigi Malerba, Le galline pensierose e altri animali, di cui a settembre verrà pubblicato un cd da La Bottega discantica di Milano.

Hai altri progetti legati al mondo della fisarmonica?

Ho un progetto, per ora ancora vago: scrivere una serie di piccoli pezzi didattici. Credo che i compositori non debbano rivolgersi soltanto al virtuoso, ma contribuire alla costruzione di un rapporto di fiducia con i giovani musicisti, con i professionisti di domani, che con la musica nuova devono poter intrattenere un rapporto naturale e non artificioso. E poi perché compositivamente mi piace la dimensione del piccolo pezzo che mette al centro della propria attenzione un oggetto semplice esplorandone la complessità interna e le potenzialità narrative.