La fisarmonica, un piccolo organo pieno di vento

Intervista a Fabrizio De Rossi Re

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Fabrizio De Rossi ReFabrizio De Rossi Re è una “vecchia conoscenza” di questo giornale e mia. Da prima che io approdassi alla direzione di ”Strumenti&Musica Magazine,” lui era già Direttore Artistico del nostro Concorso di Composizione “Città di Spoleto”. Poi, nel corso dell’intervista, sono emersi riferimenti ad altre mille occasioni in cui avremmo potuto conoscerci, ma ci siamo solamente sfiorati: dalla frequentazione degli stessi locali di Roma in cui, negli anni Settanta, si suonava, alla Spoleto musicale e teatrale di una quindicina di anni fa. La conoscenza diretta e tante comuni amicizie hanno ulteriormente agevolato lo svolgimento di questa conversazione, che, comunque, per la reciproca stima, nasceva già sotto i migliori auspici.

Fabrizio, quando preparo un’intervista a un compositore, ho l’abitudine di riorganizzare il catalogo delle sue opere in ordine cronologico, in modo da farmi una prima idea del suo percorso di ricerca. Nel tuo caso, facendolo, la prima cosa che mi è balzata agli occhi è stato un tuo brano del 1977 per clavicembalo solo, Variazioni sulla seconda minore. Allora, avevi appena diciassette anni. Come si spiega che un adolescente degli anni Settanta (siamo coetanei e conosco bene quel decennio) avesse già maturato un interesse così profondo per uno strumento così complesso e non esattamente “al passo con quei tempi”? Da dove partiva la tua formazione? Insomma, ancor prima di dedicarti agli studi musicali “classici” – o contemporaneamente ad essi – ascoltavi anche altro? Oltre al clavicembalo, c’era, nel giovanissimo Fabrizio, uno spazio per le chitarre elettriche dei Pink Floyd o per la tromba di Miles Davis?

La mia formazione pianistica è di natura jazzistica. Soprattutto negli anni lontanissimi in cui ho scritto Variazioni sulla seconda minore per clavicembalo ero veramente un giovanissimo pianista di jazz. Mangiavo Miles Davis a colazione, pranzo e cena. Mentre il rock non era il mio genere preferito. Dal 1974 al 1978 sono stato allievo di Umberto Cesari, grande pianista italiano di jazz. Poi gli studi al conservatorio, i contatti con il mondo della musica classica e contemporanea, la vita musicale romana, e non solo musicale, all’epoca fortemente piena di stimoli creativi, mi hanno trascinato, con grande naturalezza, nel mondo della composizione. La prima composizione risale al 1976. Le prime lezioni con Mauro Bortolotti risalgono proprio al 1976. Devo dire che allora, come oggi del resto, non ho mai sentito le diverse musiche come lontane tra loro, ma sempre in continua connessione. Già da giovanissimo, ero innamorato di Domenico Scarlatti (ecco spiegato il clavicembalo delle Variazioni sulla seconda minore, strumento che amo molto anche perché conobbi negli anni Settanta una meravigliosa clavicembalista che divenne famosa interprete di musica contemporanea: Paola Bernardi), ma ero innamorato anche di George Duke e di Frank Zappa… Ascoltavo tutto il giorno Bill Evans, Oscar Peterson, ma anche Frescobaldi, Bartók e Stravinsky. Ho avuto la fortuna di avere in casa una grande discografia, che ho tuttora. Da mio padre ho ereditato molti dischi di musica leggera e di jazz e da mia madre centinaia di dischi di musica classica. Insomma, avevo da piccolo una bella discoteca a disposizione che andava da Gorni Kramer a Stockhausen, da Natalino Otto a Maderna. Questa babele di musiche diverse, che risuonavano continuamente in casa da piccolo, ha inciso profondamente sulla mia formazione e sulla mia scrittura musicale. Grazie a questa formazione mantengo ancora oggi una curiosità, talvolta divorante, di ascoltare le cose più diverse.

In rigoroso ordine alfabetico – non cronologico, stavolta – i nomi dei tuoi Maestri: Luciano Berio, Mauro Bortolotti (che hai già citato), Sylvano Bussotti, Salvatore Sciarrino. Quattro giganti. Poche parole per descrivere che cosa ti ha trasmesso ciascuno di loro…

Non basterebbe un libro intero per spiegare cosa ho ricevuto da questi grandi Maestri. Direi, in ordine cronologico, che Mauro Bortolotti mi ha aperto le prime porte della composizione. I primi rudimenti tecnici fondamentali; a casa sua, in Via Latina, qui a Roma, ho visto le prime partiture di musica contemporanea della mia vita. Ma, soprattutto, da lui ho ricevuto l’idea, molto importante, di avere una grande libertà nel mestiere del comporre, senza falsi dogmi stilistici precisi, senza quella granitica mentalità accademica (anche quella di natura sperimental-contemporanea), che, se ricevuta negli anni di prima formazione, rischia, molto spesso, di determinare nello studente un blocco creativo permanente. Poi vennero le lezioni di Sylvano Bussotti alla Scuola di Fiesole nei primi anni Ottanta (1981 – 1983), attraverso il quale ho capito che un artista deve necessariamente formarsi anche amando e vivendo diverse discipline artistiche e il suo esempio è stato per me un passo ulteriore di apertura verso il mondo. Nelle sue lezioni a Fiesole ci parlava di Joan Mirò, di Luca Ronconi, di Carmelo Bene, di Pina Bausch etc. La sua poliedrica attività di scenografo, regista, compositore, scrittore e poeta ha rappresentato per me un esempio vivente di artista a 360 gradi. Questo, per un ragazzo che come me era stato sempre tra le mura del Conservatorio di Santa Cecilia, è stato veramente molto importante. Da Sciarrino andai per due anni ai suoi corsi estivi di Città di Castello. Da lui ho imparato la necessità di concentrazione per scrivere la musica. L’importanza della forma, dell’idea iniziale, del progetto, e l’importanza della cura dei particolari all’interno di una partitura. Fino ad allora avevo avuto una scrittura più libera e imprecisa. Scrivevo moltissimo, e lui mi disse una volta “scrivi poco, ma scrivi bene”. Era un invito evidente alla “concentrazione” e fu per me un’immensa lezione che non ho mai dimenticato. Con Berio non ho mai studiato, l’ho conosciuto e frequentato intensamente quando avevo già quarant’anni. Era Presidente dell’Accademia di Santa Cecilia e in pochi anni mi ha commissionato vari lavori di varia natura e molto importanti, dandomi sempre dei preziosissimi suggerimenti. Con lui, per fare un esempio, ho scoperto la possibilità di poter reinventare e trasfigurare la musica popolare ricreando delle partiture originali (Terror Vocis due canti popolari agitati e disperati, Canti di cielo e terra, Canto del rauco mendicante e altri lavori). Parlando con lui, condividevamo l’amore per la musica antica. Lui per Monteverdi e io per Frescobaldi. Mi commissionò nel 2001 un grande lavoro per voci e orchestra di strumenti antichi in occasione di una mostra a Palazzo Barberini a Roma (I colori della musica dal dicembre 2000 a febbraio 2001). Molti esecutori a gruppi sparsi nelle sale del museo per dei mesi consecutivi. Fu un’impresa faraonica, alla Berio. Dovetti partire da alcuni frammenti di Gerolamo Frescobaldi per poi trasfigurare quelle musiche in modo moderno. La presenza di Luciano Berio a Santa Cecilia è stata per Roma un momento assolutamente irripetibile, pieno di progetti meravigliosi. Purtroppo svaniti.

E quale, tra questi straordinari Maestri del ‘900, ha lasciato su di te la propria impronta più profonda?

Non saprei dire. Il compositore più importante per me è stato senz’altro Bruno Maderna, che, purtroppo, non ho mai conosciuto in quanto morto prematuramente nel 1973. Posso dire, però, che sento ancora oggi la musica di Berio, con le sue esplorazioni nelle musiche di altre culture, con la sua scrittura potente, soprattutto quella orchestrale, come un riferimento ineludibile per me.

Poco fa, mi hai parlato della tua formazione come pianista jazz. Nel piano jazz quali sono – o sono stati – i tuoi punti di riferimento?

Sono stato allievo di Umberto Cesari come ti dicevo, e in ambito jazzistico i miei grandi amori, oggetti di studio, sono stati Bud Powell Bill Evans, Ahmad Jamal e John Lewis. Tra gli italiani ho molto amato Giorgio Gaslini e mi piace moltissimo Antonello Salis che è anche fisarmonicista.

Torniamo al catalogo dei tuoi lavori, che suddividi così: ballet music, chamber music, duo, film/audiovisual music, instrument solo, lyric music, orchestral music, scenic music, specific melologo, specific radio musica, specific videoanimazione, vocal music. Una grande varietà di voci. La più nutrita è la chamber music. Al di là delle committenze o di altre opportunità, c’è, tra queste, una “casa” in cui Fabrizio De Rossi Re si sente maggiormente a proprio agio?

Da antico romano mi sento molto a mio agio solo a casa mia qui a Roma con la mia famiglia. Ho il grave difetto di essere piuttosto sedentario e poco incline ai viaggi. Ho avuto la fortuna di avere esecuzioni in tutto il mondo in luoghi per me assolutamente  irraggiungibili e forse per compensare questo grave difetto (lo riconosco) amo profondamente la letteratura che racconta di viaggi estremi che non potrei mai realizzare. Ho la biblioteca piena di libri sui viaggi di esploratori di terra e di mare. Tornando alla tua domanda, nella musica, in realtà, non esiste una “casa” precisa dove sentirmi perennemente a mio agio. Esistono delle idee musicali che, il più delle volte stimolate da una precisa commissione, cambiano casa continuamente. Nello stesso periodo, e perfino nello stesso momento, posso lavorare a un progetto di musica elettronica e scrivere intanto su un altro tavolo per quartetto d’archi.

Sempre al di là delle committenze, c’è uno strumento per cui prediligi scrivere? A parte, immagino, il tuo pianoforte. Se non una prevalenza assoluta, ho notato un cospicuo numero di pezzi per ensemble in cui è presente il violoncello.

Ho scritto parecchio per violoncello, hai ragione. Ma direi che oltre al pianoforte, ho dedicato moltissime composizioni al flauto. Ho avuto occasione di lavorare da vicino con alcuni tra i più grandi flautisti di musica contemporanea e, forse per questo, il flauto è uno strumento che mi rappresenta profondamente. Un altro strumento che amo moltissimo è l’organo, ma ho scritto pochissimo per questo meraviglioso strumento. E poi, attraverso l’amore per l’organo, ho amato, e amo molto tuttora, anche la fisarmonica. Un piccolo organo pieno di vento e molto potente.

Colgo al volo l’occasione che mi offri proprio per parlare di fisarmonica da concerto. Il tuo primo incontro da compositore con il mantice risale al 1997, vent’anni dopo il clavicembalo di cui abbiamo parlato in apertura. Un incontro che avvenne in un ambito davvero particolare: si tratta, infatti di Three pieces for films by Hans Richter per flauto dolce, pianoforte, fisarmonica e percussioni. Hans Richter (1888-1976) è stato uno dei massimi sperimentatori di estetica cinematografica e, aggiungerei, pittorica. Come nacque e in che cosa consisteva questo progetto? E perché scegliesti un ensemble con la fisarmonica?

Ricordo che fu un progetto bellissimo, e veramente originale all’interno di una rassegna che si chiamava Sipario Ducale. Si proiettavano tre capolavori del regista Hans Richter: Inflation (1928) Scenes for everythings turns (1929) Twopence Magic (1930) all’interno di una miniera trasformata in teatro tra Novafeltria e Perticara, in provincia di Rimini. Un posto straordinario che ha anche in zona un bellissimo museo minerario. Mi commissionarono le musiche per accompagnare il film e io scrissi un pezzo per flauto, fisarmonica, pianoforte e percussioni. La fisarmonica, in particolare, è molto adatta per “accompagnare” le immagini perché è uno strumento con mille colori.

A quale fisarmonicista ti rivolgesti per l’esecuzione?

La fisarmonicista per l’occasione era una ragazza spagnola di San Sebastiàn che si chiamava Anna Lande, musicista sensibile e straordinaria. Realizzò un’esecuzione piena d’energia.

Che cosa sapevi, allora, dello strumento, e come ne approfondisti la conoscenza?

Conoscevo già piuttosto bene lo strumento anche se la fisarmonica offre sempre e continuamente nuove sonorità sorprendenti anche quando pensi di conoscere bene lo strumento. Grazie al mantice e ai registri.

Non sono molti gli anni che separano un tuo brano per fisarmonica dall’altro. Il secondo, infatti, è del 2001: Slow Dance (danzetta lenta e molle delle piccole fate) per fisarmonica e orchestra. Qui, la compagine strumentale si allarga e il solista, ho visto il video su YouTube, è il sempre straordinario Ivano Battiston. Fu lui a commissionarti il brano? L’occasione, se non sbaglio, fu un anniversario della strage di Bologna del 2 agosto 1980. Che pezzo scrivesti per ricordare quella tragedia? Qui mi sembra che entriamo in quella sfera del tuo multiforme percorso sonoro, che, come si può leggere nelle tue note biografiche, potremmo definire come maggiormente orientata verso una comunicazione diretta piuttosto che verso il linguaggio delle avanguardie.

Slow Dance per fisarmonica e orchestra mi fu commissionato nel 2001 dal compositore Fabrizio Festa, direttore artistico all’epoca del Concorso 2 agosto di Bologna. Nasce, in realtà, per ricordare i cento anni dalla morte di Giuseppe Verdi (e per questo ha come sottotitolo “danzetta lenta e molle delle piccole fate” dal Falstaff). È un pezzo particolarmente lirico, eseguito splendidamente da Battiston e dall’Orchestra Toscanini di Parma diretta da Pietro Borgonovo. Un pezzo che ha davvero dei momenti laceranti, disperati e commoventi che possono evocare, attraverso i suoni, il dolore immenso e la rabbia per la terribile strage di Bologna del 1980.

Fabrizio De Rossi Re - Teatro Argentina - Novembre 2017Trascorrono altri cinque anni e scrivi Due melologhi da una stella per voce recitante, fisarmonica e pianoforte, testi – Il destino e Il granello di sabbia – di Maria Luisa Spaziani (1922-2014), la cui poesia, fin dagli esordi, si è sempre contraddistinta per una spiccata musicalità. È stata questa particolarità ad attrarti verso di lei o una singolare affinità tra le vostre poetiche? Colgo l’occasione per ricordare qui un verso di Maria Luisa Spaziani in cui la fisarmonica diventa metafora dell’anima…“Celeste fisarmonica anche l’anima oltre i monti si espande”. In entrambi i melologhi, il fisarmonicista è Riccardo Centazzo, uno dei concertisti più apprezzati nel panorama internazionale. Come si sviluppò il confronto tra di voi?

Il progetto con i testi della grande poetessa Maria Luisa Spaziani nacque all’interno del Conservatorio di Fermo, dove insegnavo in quegli anni. Il progetto fu realizzato grazie alla collega compositrice Roberta Silvestrini, che riuscì a far venire la poetessa nel nostro conservatorio a fare un incontro con gli studenti. Alcuni di noi scrissero dei pezzi per voce recitante e piccolo ensemble e la fisarmonica era suonata da Riccardo Centazzo, che, allora, era il docente dello strumento nel nostro conservatorio. Ricordo che lavorammo molto bene insieme con grande intesa e serenità.

The fairy-Queen’s ghost per mezzo e bayan e You’re Gonna cry ninety-six tears per flauto dolce e fisarmonica, rispettivamente del 2009 e 2010. Non ho avuto l’opportunità di ascoltare questi due pezzi per cui ti lascio carta bianca per descriverne i contesti in cui li componesti, il loro “carattere”, gli esecutori…

Il primo pezzo (Il fantasma della Strega Regina) nacque nel 2009 come estratto dalla mia opera lirica Biancaneve o il perfido candore scritta nel 1993. Il mezzosoprano Jana Mrazova, che era stata nell’opera interprete della parte della Regina, realizzò per i trent’anni della rassegna Nuovi Spazi Musicali questa versione particolare accompagnata dal bayan suonato da Germano Scurti. Il secondo è un pezzo completamente diverso. È ispirato alla raccolta The Empathies del pittore Frank Boyden. I suoi piccoli ritratti, una raccolta di tanti caratteri ed espressioni facciali, fanno parte della stessa partitura e sono incollati sui pentagrammi. Il pezzo è scritto per flauto dolce e fisarmonica(Duo Verena Wuesthoff flauto dolce e Eva Zöllner alla fisarmonica).

Con White Shadows per fisarmonica e orchestra d’archi siamo nel mondo fisarmonicistico per eccellenza. L’occasione, infatti, è una commissione del 41° Festival Internazionale di Castelfidardo (2016). Il brano è liberamente ispirato al film Ombre bianche (U.S.A., 1928) di W. S. Van Dyke. Torniamo al cinema, ma, questa volta, con un regista decisamente più popolare di Hans Richter. A dimostrare la tua intensa ecletticità di compositore?

Anche il grandissimo regista americano Van Dyke è stato, come Richter, un grande sperimentatore. White Shadows in the South Seas è un film del 1928. In questo caso la musica scritta da me era diventata la terza prova finale del prestigioso Concorso di Castelfidardo nel 2016. Doveva, quindi, essere un pezzo che potesse far emergere non solo il virtuosismo dell’esecutore (scontato in quella fase finale del concorso), ma anche i differenti stati d’animo imposti dalle sequenze cinematografiche, che dovevano rivelare al pubblico e alla giuria le diverse sfumature espressive del fisarmonicista concorrente. Quell’anno, vinse uno straordinario fisarmonicista portoghese José Valente, considerato oggi tra i più grandi fisarmonicisti del mondo.

Il PIF ti lasciò completa autonomia o ti chiese un brano che rispondesse a determinati requisiti/esigenze?

Christian Riganelli, fisarmonicista e direttore artistico del PIF in quegli anni, pur lasciandomi totalmente libero di scrivere la musica mi spiegò, commissionandomi il lavoro, l’idea che il pezzo doveva essere anche l’ultima prova del concorso e, quindi, doveva, naturalmente, avere i requisiti utili in modo che la giuria, me compreso in qualità di Presidente, potessimo giudicare l’interprete.

Nei tuoi lavori per fisarmonica quali peculiarità del concertista cerchi di far emergere? Il virtuosismo, la musicalità…

In genere, cerco di far emergere nel fisarmonicista un suono personale attraverso la mia scrittura. Sono molto felice quando un fisarmonicista mi chiede di trasformare le mie indicazioni timbriche perché vuol dire che ha una “sua” idea della partitura. Un interprete eccellente deve essere una specie di coautore in certi casi.

Prima di salutarci con un’ultima battuta sui tuoi progetti futuri, desidero soddisfare una curiosità legittima per un giornale come “Strumenti&Musica”, i cui editori e il sottoscritto hanno un legame profondo con la città di Spoleto. Un legame che coinvolge anche te in quanto docente al Conservatorio di Perugia e in quanto “storico” Direttore Artistico del nostro Concorso di Composizione “Città di Spoleto”: nel 2014, infatti, hai scritto un omaggio a Gian Carlo Menotti, Un canto tra cielo e terra per GCM per viola, violoncello, pianoforte. Perché Menotti? Quali aspetti della sua musica hanno catalizzato la tua attenzione?

Sono molto legato a Spoleto da diversi anni. In particolare attraverso la stretta collaborazione con il regista e scrittore Luis Gabriel Santiago (Luigi Beccafichi) ho potuto realizzare molti progetti con una particolare e stimolante forma ibrida di teatro musicale, con attori e musicisti in scena nei luoghi più importanti della città. Ricordo in particolare un lavoro al Teatro Caio Melisso con Anna Proclemer (Animali e Bestie, 2009) e un grande lavoro multimediale a Palazzo Collicola su Leoncillo (Creta, creta mia, 2008) con la regia di Anna Leonardi. Da diversi anni, poi, curo la direzione artistica del Concorso Internazionale di Composizione “Città di Spoleto” (da quest’anno, il Concorso è dedicato alla memoria di Roberto Bruno, un collaboratore e, soprattutto, un grande amico dell’Associazione Italian Accordion Culture promotrice del Festival Strumenti&Musica, recentemente scomparso) e potrei aggiungere molte altre avventure artistiche spoletine. Un canto tra Cielo e Terra per Gian Carlo Menotti è nato grazie a Umbria Ensemble durante la direzione del Festival di Spoleto da parte di Giorgio Ferrara. Mi piacque moltissimo immergermi nella scrittura di Gian Carlo Menotti, prendere in prestito alcune sue caratteristiche movenze stilistiche per realizzare questo omaggio rispettoso e divertente nello stesso momento. Un lavoro curioso, direi unico, nella mia produzione compositiva. Nella presentazione dell’epoca un giornalista scriveva: “Ad un aspetto più profondo e privato del Maestro italo-americano si ispira Un canto tra Cielo e Terra per GCM opera commissionata a Fabrizio De Rossi Re per l’occasione e presentata in prima esecuzione assoluta la sera del 7 Luglio 2014. Una partitura intensa e lieve, dove l’ispirazione intimistica si apre ad improvvise lacerazioni visionarie declamate tuttavia secondo una cifra stilistica essenzialmente lirica.

Che cosa sta per uscire di nuovo dagli innumerevoli “cassetti” della tua sfavillante creatività?

Ho da poco debuttato qui a Roma al Teatro Palladium con una nuova opera dal titolo Magic Circles  – Storia di Martin W. che sapeva contare le stelle su libretto e drammaturgia di Guido Barbieri con la regia di Cesare Scarton e con protagonista l’attore Vinicio Marchioni. Una partitura complessa per sei voci e molti strumenti con elettronica, che cerca di portare in scena quello che avviene nella testa di un uomo autistico con una particolare sindrome (quella detta “Savant”), che mette in risalto, in particolare, gli aspetti fortemente creativi della personalità autistica. Un tema molto intenso, una sfida impossibile, che mi ha davvero trascinato anima e corpo, per molti mesi di lavorazione, in una terra per me sconosciuta.