“L’Italia in lungo e in largo”. Conversazione con Giovanna Marini

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L'Italia in lungo e in largoGiovanna Marini è una delle voci più importanti nel panorama delle musiche popolari del nostro paese. Fin dai primi anni Sessanta si è dedicata allo studio, alla raccolta e alla riproposta di musiche di tradizione orale, collaborando con tanti ricercatori e studiosi. Il suo percorso è legato a doppio filo alle espressioni di tradizione orale – che ha indagato attraverso tanti repertori di tante aree italiane – e alla composizione. Tra le sue esperienze più importanti ricordiamo il Quartetto vocale, fondato nel 1976, del quale hanno fatto parte Patrizia Nasini, Patrizia Bovi e Francesca Breschi. Durante la sua lunga carriera ha prodotto numerosi album ed è recentemente uscito per  le edizioni Finisterre “L’Italia in lungo e in largo”, titolo di uno spettacolo omonimo che Giovanna e Francesca Breschi rappresenteranno questa sera all’Auditorium Parco della Musica di Roma. Lo spettacolo e l’uscita del disco sono stati il motivo per cui l’abbiamo contattata e le abbiamo chiesto di parlarci dei suoi progetti attuali. Dalla conversazione che segue emerge il profilo di un’artista in pieno fermento, la cui attività, come sempre, racchiude interessi e realizzazioni differenti. Come si potrà leggere in queste righe, Giovanna riesce a fondere con equilibrio le sue tante ispirazioni e soprattutto i tanti elementi che la interessano: da Pasolini al canto tradizionale, dalle Passioni alla scrittura musicale, dalla didattica – che la vede impegnata in due scuole – all’attività concertistica.

Giovanna, approfittiamo del tuo concerto previsto per stasera all’Auditorium Parco della Musica di Roma per parlare dei progetti a cui stai lavorando in questo periodo.

Questo per me è un anno molto vivace. A un certo punto mi sono detta “Io sono vecchia, non faccio più niente, va a finire che non faccio niente. Ma mi annoio…” Allora mi sono inventata un lavoro. Io insegno in due scuole, Monteporzio e Testaccio, quindi in realtà non avrei il tempo di annoiarmi, anzi al contrario sono anche stanca. Però mi fa piacere insegnare, mi piace. Questi viaggi che faccio con i miei allievi sono divertentissimi. È tutta vita e sono contenta. Però sai a me piace scrivere la musica, e allora mi sono inventata di fare qualcosa. Visto che con Giuseppe Bertolucci parlavamo spesso dei Dialoghi delle Carmelitane, che ha qualcosa di molto interessante per me. E non capivo cos’era. L’ho capito scrivendo questa cosa. E con Giuseppe avevamo pensato di rivederlo, perché lui ne aveva già fatto uno di dialogo delle Carmelitane. Poi Giuseppe è morto e non ci ho più pensato. In seguito mi è rivenuto in mente e ho parlato con quelli di Angelica di Bologna (manifestazione internazionale di musica contemporanea e casa discografica, N.d.R.) e gli ho proposto: “Sentite, senza pagarmi, perché tanto so che soldi non ce ne sono, a me va di scrivere questo, a voi interessa?”, e loro “Sì, ci interessa moltissimo”. Allora sono partita a scrivere questa partitura. Lo avessi mai fatto di inventarmi un lavoro! Subito dopo è arrivato un lavoro vero. Quindi ho dovuto fare alcune cose in contemporanea. Ho finito questo lavoro sulle Carmelitane – che in realtà ho concluso da poco, perché poi con il tempo è cresciuto ed è divenuto una cantata sul martirio, una cantata che tocca temi grossi, importanti – e adesso la stanno provando a Bologna, dove ogni tanto vado a seguire le prove. Intanto mi chiama Antonio Calbi, il direttore del Teatro di Roma, e mi dice “Senti, ma perché non fai una bella cantata, o qualcosa su Pasolini…” E allora, figurati, sono partita in quarta con quella! Allora ho un po’ ripescato le cose che avevo già scritto, ma mi è venuta in mente un’idea. Io avevo musicato anche le Ceneri di Gramsci e mi sono ricordata che nel quarto canto Pasolini dice una cosa che mi ha colpito molto: lo scandalo – lui lo chiama lo scandalo – di trovarmi spesso con me e contro di me. Cioè lui rileva questa contraddizione in se stesso, ed è bello questo suo modo di parlare, di usare, come al solito, parole che colpiscono. Allora ho pensato di mettere in scena questa cosa e ho pensato di mettere in scena una cantata così fatta: da un alto del palcoscenico un lettore legge una delle lettere luterane, quella che parla dei giovani infelici. E, dall’altra parte un gruppo corale che interloquisce con il lettore e lo interrompe continuamente con dei canti di Pasolini, che sono bellissimi. E allora contro questa lettera, spiegata con un’analisi molto critica, molto avversa anche ai giovani, questo coro interrompe continuamente con i canti di Pasolini, che sono invece canti non analitici, sono pieni di gioia, di amore, di ricordi, di malinconia, di campagna, di mamma, di tutte cose che lui non dice nelle lettere luterane. E quindi c’è il contrasto fra il testo di queste poesie della meglio gioventù, che sono fra le cose più belle che ha scritto in friulano – quindi c’è anche un contrasto di lingua, un contrasto di modo di essere, perché in queste lui è giovane, dolcissimo e spensierato – e le lettere, nelle quali lui è un giovane amaro. E questo contrasto lo porto fino in fondo, cioè fino alle estreme conseguenze. Alla fine chiudo i tutto con un canto di un friulano, che non ha l’età giovanile di Pasolini, ha molti più anni, e l’ha scritto adesso. E secondo me, forse, Pasolini sarebbe stato d’accordo. Il titolo del canto in italiano vuol dire “è tutto invano”: si nasce, si muore, si lavora, si tagliano gli alberi, si tirano su i figli, si portano a scuola, si compra una macchina, se ne compra un’altra per pagare l’altra, se ne vende un’altra… insomma si lavora per mangiare… e sempre il coro ripete “è tutto inutile, è tutto invano”, salvo – dice lui alla fine della poesia – un sapere delle cose, come sapere conoscere, sapere insegnare, cioè avere la gioia di insegnare. Sapere nel senso di apprezzare: sapere gli alberi, sapere le macchine… quindi in qualche modo rivaluta il ruolo della coscienza dell’uomo, che sembra perduta. Quindi questo mi è piaciuto molto e l’ho messo alla fine di tutta questa cantata che si chiamerà “Sono Pasolini”. E mi trovo adesso che il 18 maggio esce al Teatro Argenitina il “Tedeum per un amico”, che è quello sulle Carmelitane. Parto dalle Carmelitane e poi inizio a parlare del mondo degli immigrati, degli intellettuali torinesi e napoletani che si sono schierati, alla fine del 1700, contro il potere, perché avevano sentito che in Francia c’era una rivoluzione e volevano farla anche in Italia. E sbagliarono, tanto è vero che furono ghigliottinati tutti. Quindi è tutta una serie di martiri, uno dopo l’altro, e si arriva alle lavoratrici, alle tessitrici, alle mondine. Tutte vittime. Ci sono casi di vari tipi, sempre accompagnati però da una partitura. Entrano questi canti e sotto c’è il canto delle Carmelitane, le quali hanno anche loro deciso di morire. In mezzo tutti questi canti di rivendicazione e quindi anche di speranza. Allora mi ritrovo con questo che esce il 18 maggio all’Argentina, poi a giugno facciamo un concerto di chiusura della stagione dell’Argentina con il mio corso della Scuola di Testaccio, che ormai è composto da gente che mi segue da vent’anni, poi ad ottobre facciamo di nuovo il “Sono Pasolini” al Teatro India di Roma per una settimana. Quindi sono presa da tutte queste cose e, da un lato, mi sento come ne Il canto del cigno, perché fra poco compio ottant’anni, e dall’altro lato mi tengono viva.

E per quanto riguarda il concerto “L’Italia in lungo e in largo”, in programma stasera sabato 7 marzo all’Auditorium Parco della Musica di Roma?

Sai anche questo concerto è un’aggiunta. Ho incontrato, e mi ha fatto piacere conoscere, Vinicio Capossela, il quale ha invitato me e Francesca Breschi a cantare a Calitri, in occasione del festival che lui organizza in Irpinia. Noi siamo andate e abbiamo fatto il concerto che riproponiamo all’Auditorium. Siccome è piaciuto molto ed è piaciuto anche a Vinicio – perché poi nessuno in realtà le ascolta queste cose – abbiamo pensato di riproporlo. E sai perché nessuno le ascolta queste cose? Perché sono in parte le cantate che io ho scritto dal ’67 ai primi anni Ottanta. Sono delle ballate lunghe, le quali, a parte La ballata dell’America, raccontano tante cose dell’Italia. E allora abbiamo deciso di cantarle. Sono pezzi che in fondo sono sconosciuti. Nessuno li conosce, ad eccezione di qualche rarissimo conoscitore delle mie cose.

Questo spettacolo ha lo stesso titolo di un disco pubblicato da Finisterre?

Sì è proprio L’Italia in lungo e in largo.

Riguardo lo spettacolo, potremmo parlare di come si svolge o di come è organizzato. Hai parlato dei contenuti, possiamo parlare del modo in cui verranno proposti?

Allo spettacolo io ho invitato anche Le donne di Giulianello, che conosco da anni, da quando le sentii cantare la Passione, che è una cosa bellissima, nel ’68. Io sono sempre rimasta attaccata a loro, perché mi fanno sentire e capire molte cose. Cleofe, che non c’è più, mi ha detto a un certo punto: “Lo sai perché non cantiamo più la Passione? Perché non ci rappresenta più. Viviamo ormai nella città nuova, siamo tutte sparpagliate, prima stavamo in paese, unite una all’altra, lavoravamo insieme nei campi. Ora qua i campi non ci sono più. La settimana di Passione portavamo le spine alla baronessa, dove le trovi le spine adesso?” E via di questo passo. Quindi mi ha detto “Adesso queste le dovete cantare voi in teatro”. E io le ho chiesto “ma perché in teatro?”. E lei mi ha detto “Perché Gesù Cristo va rappresentato”. E questa frase mi ha colpito molto. Difatti la loro Passione finisce con “E Gesù Cristo sia rappresentato”. È molto bella questa cosa. Lei aveva colto il fatto che dalla tradizione si poteva passare, senza troppe scosse, senza troppo sconvolgersi, al teatro. Cioè portare la tradizione in teatro, perché diventa un fatto spettacolare. In effetti unisce il rito alla funzione, perché il teatro è uno spettacolo e lo spettacolo rappresenta la realtà. Insegna la realtà e può insegnare anche la realtà immaginata, l’immaginario di una mente, che viene sempre da una realtà, è realtà. Quindi lei ha ragione quando dice che la tradizione adesso non ha più una sua funzione qui, ma deve essere rappresentata in teatro, perché allora assume un’altra funzione: quella di far conoscere le cose alla gente. E aveva ragione. A me è piaciuto molto questo discorso. Ora c’è la sorella, Lalla, che ha novantatre anni ma continua a cantare con una voce formidabile. E io me le porto con me, perché gli voglio bene e ci portano fortuna. Saranno presenti allo spettacolo dell’Auditorium e canteranno, all’inizio, alcuni loro canti. Poi continuiamo Francesca e io con questi pezzi sull’Italia in lungo e in largo. Poi c’è una bella cantata che ha portato Francesca, un’improvvisazione toscana fra un’aristocratica e una popolana, che aveva raccolto Caterina Bueno.

In ottava rima?

Sì. Queste sono le cose che cantiamo e che costituiscono lo spettacolo. Poi racconto per la prima volta che pezzi come “I treni per Reggio Calabria” dovevano essere “La ballata del processo”. Si sarebbe dovuto chiamare Processo al Palazzo, perché la facevo al tempo in cui ogni tanto incontravo Pasolini. Eravamo insieme a quella dimostrazione del quindici giugno del 1975. Lui era lì per fare la sua dichiarazione di voto, perché c’erano i suoi amici romani che avevano un po’ conquistato la sua amicizia. E quindi Pasolini è venuto con noi a fare la dichiarazione di voto. Io ho cantato Reggio Calabria e quando ho finito lui mi ha detto “questa mi è piaciuta proprio” e allora Boria che era lì vicino ha iniziato a dire “dai scrivi qualcosa per la Marini”. Allora lui ha detto “adesso devo partire, se vuoi quando torno ci sentiamo”. Insomma non ha proprio detto “scrivo qualcosa per te”, però ha detto “due parole si possono trovare e le metti in musica”. Io ero profusa in ringraziamenti, poi però non è successo perché a novembre lui è morto. Quindi io ho poi scritto Lamento per la morte di Pasolini. E in quei pezzi c’era Reggio Calabria, Abbiate pazienza, Le trombe, Terremoto urbano. E dovevano costituire un’unica cantata che si sarebbe chiamata Processo al Palazzo. Questo titolo era quello che spesso Pasolini dava ai suoi articoli sul Corriere della Sera, quelli del venerdì. Allora anche per questo la cantata è rivolta al lavoro con Pasolini. Proprio lavoro “con” Pasolini non si può assolutamente dire, non enfatizziamo tropo perché non era così. Lui ha detto due parole e basta, però a me mi colpirono. Quando lui diceva due parole io me le ricordavo… me le ricordo ancora!

Girerete con questo spettacolo?

Se ci chiamano, molto volentieri. Mettici di mezzo la mia età, che a questo punto diviene un po’ un impiccio. Mi stancano i viaggi, il concerto no e neanche le canzoni.