La diatonica tra mondo arcaico e mondo moderno

Intervista ad Ambrogio Sparagna

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Ambrogio SparagnaSfido chiunque a pensare all’organetto o alla diatonica e a non collegarlo al suo nome: Ambrogio Sparagna, che, senza dubbio, ha contribuito in modo importante a dare nuova vita e vitalità all’essenza della musica popolare italiana, anche attraverso la sua intensa attività di studioso, ricercatore, didatta e divulgatore. Definirei questa intervista come un bel viaggio, e un arricchimento, che inizia con qualche accenno alle prime esperienze e agli incontri del Maestro Sparagna e passa per una riflessione sul ruolo della musica popolare, e degli strumenti a essa connessi, come musica che crea legami con persone e territori, dotata di una grande forza unificante, contemporaneamente globale e locale. Ringrazio infinitamente Ambrogio Sparagna per avermi concesso questa intervista.

Qual è stata la spinta che l’ha portata prima a studiare etnomusicologia, poi a dedicarsi alla diffusione della musica popolare italiana e a fondare, nel 1976, la prima scuola di musica popolare in Italia?

Io ho cominciato a suonare da giovanissimo e, nel 1973, con i compagni del liceo ho fondato a Formia un gruppo che si chiamava Canzoniere Popolare degli Aurunci. In quegli anni c’era il grande boom del cosiddetto folk revival, quindi tutti noi ragazzi eravamo attratti da questo tipo di situazione. Io ho cominciato facendo il cantante e, soprattutto, facendo un lavoro di registrazione dei canti: fin da piccolo ho avuto questa attenzione e mi risultava più semplice rispetto ad altri, perché vivevo in un piccolo borgo, che si chiama Maranola (vicino Formia), dove c’era ancora una forte presenza di cantori e sonatori popolari, al di là del fatto che anche nella mia famiglia c’era questo tipo di tradizione. Per cui mi sono trovato subito dentro quello che era un vero e proprio movimento culturale giovanile: pur vivendo in provincia, queste cose avvenivano attraverso l’impulso di una forte sensibilizzazione da parte dei movimenti culturali, politici, il movimento giovanile e tutto quello che noi consideriamo la stagione degli anni Settanta. In quel periodo, era facile anche incontrare personaggi: io ho avuto la fortuna, nel 1973, di incontrare a Gaeta Ignazio Buttitta, uno dei più grandi poeti siciliani e figura fondamentale in quegli anni. Lui stesso ci diede il coraggio di continuare a fare questo tipo di esperienza, anche se appariva un po’ singolare che dei giovanissimi (io allora avevo appena sedici anni) andassero in giro per le campagne a registrare in maniera fortuita: le prime registrazioni le ho fatte con un registratore a bobine Geloso in modo molto amatoriale. Tuttavia, quelle esperienze sono state fondamentali perché, dopo due o tre anni, abbiamo iniziato a coniugare questa piccola ricerca nei paesi attorno con concerti collegati alle feste politiche, alle feste popolari, alle feste dell’ “Avanti!” ecc., trovandoci in breve tempo a fare cinquanta-sessanta concerti all’anno. Questo ha dato un forte impulso alla mia attività, tant’è che nel settembre del 1976 mi sono iscritto all’università, al primo corso di etnomusicologia fatto da Diego Carpitella e, simultaneamente, verso la fine dell’anno, abbiamo organizzato questi primi corsi di organetto a Roma che hanno riscosso un grande successo e hanno dato poi il via a corsi di zampogna, tamburello ecc., facendo diventare la scuola di musica popolare del Circolo Gianni Bosio una sorta di attrazione. In brevissimo tempo, siamo passati da essere poco più di una decina a centinaia e centinaia, e i miei allievi sono diventati a loro volta insegnanti: soprattutto per quanto concerne la pratica dell’organetto, tutto ciò è diventato un fenomeno che nel corso degli anni si è largamente sviluppato e arricchito, investendo tutta l’Italia, da nord a sud, con una forte predisposizione in alcune aree dove c’era già la preesistenza di strumenti popolari.

Oggi, sicuramente possiamo dire che attorno a questi strumenti c’è un vero e proprio fenomeno di massa, che genera anche un’attività economica consistente, sia per quanto concerne la produzione degli strumenti della cosiddetta “liuteria popolare”, che costituisce una realtà molto varia e composita nel panorama della liuteria, sia per quanto riguarda il successo di alcuni festival, non ultimo il successo della “Notte della Taranta”, di cui sono stato artefice dal 2003 al 2007. Tutto questo è diventato un vero e proprio movimento che si articola in tantissime iniziative, festival e, soprattutto, tanta gente che suona: ragazzi, bambini, un vero esercito di musicisti, che spesso non viene considerato nei sistemi dell’organizzazione didattica o strutturata, anche se oggi troviamo dei corsi di strumenti popolari organizzati, però, in modo un po’ acefalo, in cui ognuno fa il proprio corso. In ogni caso, al di là di questo aspetto, il dato reale, come dicevo, è che questo è un fenomeno di massa che attorno al recupero della musica popolare ha creato anche tutta una serie di altri possibili sviluppi, legati, soprattutto, a un incremento delle cosiddette aree interne, che costituiscono un valore importante nella produzione e nell’economia locale. Noi eravamo partiti dal creare un movimento che avesse, fondamentalmente, la necessità di riconoscere un proprio senso identitario: questa è stata la matrice di tutto e per me rimane ancora il segno principale di tutto questo movimento.

Quindi è un fenomeno che è andato sempre di più in crescendo, fino a diventare, come diceva, un fenomeno di massa…

Sì, sono fenomeni di massa. Sono diciassette anni, dal 2007, che ho fondato a Roma, al Parco della Musica, l’Orchestra Popolare Italiana (OPI). In questi anni, noi abbiamo realizzato periodicamente un’attività residenziale, che consiste poi nella produzione di cinque o sei eventi originali all’anno, dedicati alla valorizzazione della musica popolare italiana in genere e connessi con il ciclo delle stagioni, come può essere il periodo di Natale, le feste legate al Carnevale, le feste del Primo Maggio, le feste legate alla danza estiva e, in ultimo, una parte dedicata alla canzone romana a ottobre. In questi anni, parliamo di oltre sessantamila paganti: cifre che non possono essere considerate secondarie, rapportate a un interesse importante. Anche adesso, quello che sta avvenendo in varie regioni è la spinta alla creazione di orchestre popolari regionali, il fenomeno dei conservatori, il fenomeno di altre iniziative collegate anche alla danza, per esempio, con il recupero della pizzica, delle tammurriate, il recupero al nord della tradizione dei cosiddetti balli pre-liscio, in tutta l’area dell’Appennino Tosco-Romagnolo, Emiliano, e tutto quello che noi chiamiamo il ballo saltato: sono tutti fenomeni che nell’insieme creano un’attenzione molto forte. Tutto questo, poi, è segnato da una cosa fondamentale: tutti suonano, in un’Italia che non suona più, dove la musica, oggi, si fa con le sequenze. Questo è un segno fortissimo di appropriazione di un valore e, per me, anche un segno di cultura antagonista: avere dei ragazzini che, dai sei, sette anni, si mettono a suonare le tarantelle calabresi, così come il saltarello abruzzese, le pastorali in Basilicata, le pizziche nel Salento o le tammurriate in Campania è un segno fortissimo rispetto a una condizione che non vede più i ragazzi protagonisti di un’esperienza di suono comunitaria. Quando io ho incominciato, tutti suonavano, c’erano i gruppi, le band, mentre oggi esiste il solista che fa un altro tipo di percorso rispetto a quello che io racconto e che, invece, si svolge essenzialmente dentro un ambito comunitario. Sempre più ragazzi suonano e sempre più ragazze suonano strumenti straordinari, basti pensare a quello che è successo in Sardegna nel recupero delle launeddas, strumento complicatissimo, che oggi viene suonato da centinaia e centinaia di persone, comprese tantissime ragazze, che suonano questo strumento che, un tempo, era di esclusivo appannaggio maschile. Questo è un segnale di vitalità della musica popolare che, mi auguro, venga messo in evidenza anche dalle istituzioni, soprattutto per tenere in piedi realtà periferiche della dorsale appenninica, attraverso un’attività di valorizzazione degli strumenti popolari che possa anche legare le persone ai territori fortemente soggetti allo spopolamento. Per fare un esempio, recentemente, in occasione delle celebrazioni di Dante, nel 2021, ho fatto tutto un lavoro su di lui mettendo in evidenza come si sia mantenuto nella cultura popolare attraverso l’elemento fondamentale del canto: ho conosciuto molti poeti popolari importanti, per esempio il toscano Edilio Romanelli, che, nelle sue attività di poeta estemporaneo, usava cantare dei versi in terzine dantesche, alla stregua di quello che era il mondo popolare su cui questa impalcatura poetica si è appoggiata per secoli.

Ambrogio SparagnaLa sua attività di ricerca sulla musica tradizionale italiana ha inizio già negli anni Settanta. In questi cinquant’anni di attività ha notato dei cambiamenti nell’approccio e nella percezione della musica popolare italiana?

Io, di questi cinquant’anni che sono passati, do una valutazione largamente positiva. Quando ho cominciato a suonare eravamo io e pochi altri, convinti di essere gli ultimi cerimonieri di un mondo che era stato straordinario e che sembrava essere destinato alla totale estinzione, nel momento in cui andavamo a sentire gli ultimi cantori. Per fortuna, non è stato così e si è creato un interesse straordinario.

A proposito di questo, in un’intervista ha dichiarato che “l’OPI è anche un affascinante progetto di nuova musica popolare con repertori originali che raccontano una nuova Italia di musiche che coinvolgono i giovani in cerca di un ritmo identitario e di occasioni per una nuova socialità”…

Sì, il fatto di stare a Roma, di avere un’attività continuativa, di scegliere di stare in un posto in cui poter raccogliere ragazzi che vengono da tutte le regioni, e anche da varie parti del Mediterraneo, visto che spesso i rapporti con la musica si svolgono anche attraverso suoni dall’altra parte del mare (abbiamo di frequente progetti che riguardano culture dell’area del Mediterraneo africana, così come dell’area greca, dell’area turca…) consente di generare un linguaggio nuovo, che attira anche un pubblico più vario e, soprattutto, facilita il confronto e l’entusiasmo di incontrare un repertorio che ha un fascino straordinario e che può essere una musica della contemporaneità. Tanti ragazzi, oggi, stanno facendo del canto e degli strumenti popolari, una base della propria espressività artistica primaria.

Nel suo repertorio troviamo anche brani originali, non solo rielaborazioni di brani puramente tradizionali: possiamo dire che questo sia anche un modo per raccontare temi attuali passando per sonorità tradizionali? Alla base c’è l’idea di partire dalla tradizione per raccontare il presente, in qualche modo?

Sicuramente noi raccontiamo il presente, non il passato: il passato lo utilizziamo come base. Io ho esperienza di lavoro sulle fonti, rappresentate sia dalla documentazione sonora che ho raccolto registrando musica da nord a sud, dal Delta del Po al Salento, sia dalle raccolte di canti di poesia popolare ottocentesca, a cui, per mia formazione accademica, ho sempre dato molta attenzione: dal toscano Niccolò Tommaseo, al piemontese Costantino Nigra, al siciliano Giuseppe Pitrè, al napoletano Luigi Molinaro Del Chiaro. Di quel materiale cerco di prendere alcune cose fondamentali che riguardano la forma e il contenuto poetici, per esempio l’uso dello strambotto e tutti quelli che sono i modi tipici della cultura poetica antica italiana, che nasce con San Francesco, attraversa Dante, arriva nel Cinquecento con Le Laudi di San Filippo Neri, nel Settecento con le Canzoncine di Sant’Alfonso Maria De Liguori e diventa un unicum. Su questo materiale poetico compongo delle melodie che hanno una fortissima determinazione dalla metrica, ovviamente, mantenendo quelle che sono, secondo me, le condizioni di avvicinabilità ai cosiddetti modelli popolari. Per cui lavoro sulle scale diatoniche, lavoro su una sorta di polimodalità, utilizzando il metro della lingua, che costruisce tutto mediante la metrica dell’endecasillabo, e lì vado a fare tutto un lavoro di costruzione melodica, inserendo degli interludi strumentali tra le strofe, che prima non venivano presi in considerazione, ma che sono necessari per creare spettacoli connessi alla contemporaneità. Faccio l’esempio di una Lauda di San Filippo Neri che dice “Chi vuol salire in cielo dove si vede Dio ascolti il parlar mio. Da tempo io ne ho voglia, perché su questa terra non vedo altro che guerra”: questo è un testo scritto intorno alla metà del Cinquecento, ma che applicato all’oggi sembra di una contemporaneità pazzesca, per cui ho dovuto inserire questo testo dentro una sorta di interludio strumentale su un ritmo che è tipico del nostro saltarello, del nostro mondo, perché quella Lauda era legata a quel tipo di condizione. Inoltre, intorno a quella Lauda, c’era un’esperienza importante che lui aveva fatto di cammino rispetto a questo suo viaggio mitico che lo porta da Firenze a Cassino, da Cassino a Gaeta e da Gaeta a Roma: se andiamo a scavare nel profondo, ci accorgiamo che questo tipo di esperienza ha un carattere universale.

Il canto popolare ha bisogno di una lettura profonda, diacronica, analitica. Per cui sono tante le implicazioni che si vanno a mettere in campo e ci vuole la coscienza di mettere dei testi, che siano antichi, legati all’esperienza della Prima Guerra Mondiale o ai canti della Resistenza, alle lotte contadine degli anni Cinquanta, dentro una condizione in cui questo tipo di messaggio dev’essere favorito a un ascolto meno ampolloso e più vicino alle esigenze delle persone comuni. Questa è la chiave del nostro successo, dimostrato dai numeri, e ne sono molto fiero perché è un’esperienza unica.

Immagino che se i canti popolari rimanessero fini a sé stessi, per come sono nati, forse non avrebbero lo stesso successo…

Il testo dei canti popolari è stato tramandato per secoli: ci sono dei canti che hanno addirittura una radice nella cosiddetta poesia cortese, agli albori della storia della poesia italiana, o nel Cantico delle Creature di San Francesco. Si tratta di un tipo di insegnamento che poi è diventato prassi, ed è presente in tanti canti popolari italiani che, per esempio, utilizzano lo stesso tipo di capoversi di quando San Francesco parla delle cosiddette “creature”, per raccontare l’amore, il rapporto tra le persone ecc. Per cui i testi e la poesia sono rimasti ancorati per secoli, mentre la musica si è trasformata: rimanendo nell’esempio del Cantico delle Creature, a cui sto lavorando in modo approfondito, i coevi di San Francesco raccontano che lui aveva messo anche le musiche e lo cantava, poi ovviamente quelle musiche le abbiamo perse, ma la parola è rimasta: il cantico è rimasto, con la sua regola che poi si trasmette per secoli. Lo stesso vale per altri canti popolari: in ogni luogo c’è un modo diverso di cantare, ma le narrazioni sono quelle.

Una curiosità: l’approccio allo studio e alla registrazione è sempre stato lo stesso o è cambiato in questi cinquant’anni di attività di ricerca?

Ovviamente si è ulteriormente arricchito: all’inizio facevo le canzoni della Nuova Compagnia di Canto Popolare, come tutti i miei compagni, poi ho cominciato ad avere un’attenzione maggiore e lo studio, insieme al lavoro di analisi, con un grande etnomusicologo come Diego Carpitella, con cui mi sono laureato, ovviamente è stato importante per me. Poi, progressivamente, ho trovato la mia strada, che è sempre stata costellata di un’attenzione allo studio, alla forma, agli strumenti, ma anche alla lingua, ai dialetti e alle cosiddette culture di minoranza (il grico, la cultura arbereshe…): ho un’impostazione da filologo nel cercare di capire la connessione tra parola scritta e parola cantata, che è completamente diversa. Una cosa che certamente ho sempre avuto, è un’attenzione forte nei confronti della poesia.

Lei ha portato la musica popolare italiana nel mondo: qual è il suo impatto e come è stato il primo approccio con l’estero?

È sempre stato un grande successo. Io ho cominciato nel 1986, ho intrapreso una carriera all’estero, e devo dire che mi ha generato tanta sicurezza e mi ha fatto diventare musicista, grazie anche all’esperienza in Francia, dove, tra il 1991 e il 1992, sono stato, insieme a Giovanna Marini, insegnante di etnomusicologia all’università di Saint-Denis di Parigi. Noi, avendo questo fascino della melodia che dialoga con il ritmo, siamo sempre stati musicisti molto richiesti. Quando ho fatto il direttore della “Notte della Taranta”, ho portato l’Orchestra della Notte della Taranta a Pechino e fu un successo strepitoso, con cinquantamila persone a vedere il concerto e in moltissimi a ballare sotto di noi. Abbiamo avuto molto successo anche in Messico, in Brasile, in Kazakistan, dove facemmo, con il conservatorio di Astana, un’attività collegata con i ragazzi del coro che erano entusiasti di cantare in italiano. Inoltre, quando siamo andati all’estero, abbiamo cercato di incontrare le realtà più interessanti, per esempio con le tournée fatte in Paraguay, in Brasile, dove abbiamo fatto delle cose dentro gli alagados di Salvador de Bahia e nei luoghi dove c’è più senso di umanità, di cui questa musica è forte nell’espressione.

Ambrogio SparagnaPotremmo dire che è una musica che unisce…

Sì, è locale e globale allo stesso tempo: è molto più semplice unire le persone con questa musica che con la politica.

Viste le numerose esibizioni e viaggi all’estero che ha fatto, avrà avuto anche modo di conoscere e avvicinarsi alla musica tradizionale dei vari territori.

Ovunque siamo stati, dalla Libia, all’Iran, all’Iraq abbiamo tentato di coniugarci con gli artisti locali, come l’esempio che ho fatto prima del Kazakistan, senza mai fare un’espressione di lavoro esclusiva: questo ci ha favorito sensibilmente. Per esempio, recentemente, siamo stati a Dubai durante l’Expo e abbiamo chiamato tre musicisti della città, che conoscevamo attraverso una rete mondiale di musica popolare, riuscendo a fare un concerto, insieme a loro, che ha avuto un successo enorme ed è andato nella diretta tradizionale del telegiornale. Come dicevo prima, con questa musica si riesce a essere decisamente più vicino agli altri e a incontrarsi, pur non parlando la stessa lingua.

Diciamo che è un linguaggio universale e, come diceva, al tempo stesso locale legato alla cultura, alla società e agli usi.

Esatto, un esempio di elemento fondante è il tamburello, che si trova dappertutto, o un flauto, o una corda, che può essere la mandola: andando nei vari Paesi ci si accorge che si trovano strumenti che hanno la stessa struttura, riuscendo ad adattarsi nonostante le differenze nelle scale e nei modi.

Lei suona uno strumento tra i più identificativi del genere popolare: l’organetto. Quale pensa che sia il valore che apporta alla musica popolare italiana?

Per quanto riguarda l’organetto, la cosa fondamentale è che è uno strumento che nasce durante la rivoluzione industriale e già al suo interno ha questo legame con il mondo arcaico e il mondo moderno: i primi a suonarlo erano i contadini che poi diventavano operai, o che, per esempio, vivevano a Parigi e poi andavano a vivere nelle colonie portandoselo dietro, come gli italiani che andavano in Argentina o in Brasile. Un’altra cosa fondamentale è che, essendo uno strumento con una struttura di tipo diatonico, negli anni ci sono stati una serie di prototipi che hanno portato a uno sviluppo di questo strumento: la fisarmonica cromatica è la diretta derivazione del primo organetto. Tuttavia, credo che, per una diffusione ad ampio respiro di questo strumento, sia fondamentale formalizzare una tipologia di modelli che siano uniformi, come lo standard a otto bassi e due file, che ha una sua classificazione, per evitare che ci siano tanti prototipi molto diversi tra di loro. Io stesso ho fatto alcune piccole variazioni che, però, non hanno modificato in alcun modo la natura dello strumento, se non arricchendolo nelle capacità espressive: nonostante io sia stato tra i primi a suonare organetti che avessero più file e più bassi, rimango convinto dell’idea che l’organetto debba rimanere uno strumento con otto bassi e due file melodiche.

Ci sono nuovi progetti in arrivo?

Come accennavo prima, sto lavorando moltissimo sul Cantico delle Creature come base della canzone italiana, recuperando in archivio una serie di materiali connessi al suo sviluppo, attraverso anche la tradizione francescana e la tradizione che vede una grande presenza di questo canto, che diventa una sorta di “custodia del Creato”, e che credo sia una canzone contemporanea e necessaria, visto quello che stiamo subendo in questo periodo.

Ci lasci un messaggio per i lettori, se le va.

Mi fa molto piacere aver fatto questa intervista. Continuate a leggere questa rivista che io considero molto importante e, soprattutto, considero molto importante parlare di strumenti in senso ampio, così come state facendo, non basandosi soltanto su questioni tipologiche, ma raccontando lo strumento dentro il contesto, perché, fuori dal contesto, lo strumento non ha lo stesso valore.

 

DISCOGRAFIA

Il paese con le ali (SudNord, 1986)

Dispari e pari (SudNord, 1987)

Trillillì (SudNord, 1991)

Giofà il servo del Re (BMG, 1993)

Invito (BMG, 1995)

La via dei Romei (BMG, 1997)

L’Avvenuta Profezia (Finisterre, 2000)

Vorrei ballare (Finisterre, 2001)

Ambrogio Sparagna (Finisterre, 2004)

Litania (Finisterre, 2004)

La Notte della Taranta 2005 (Parco della Musica Records, 2005)

La Notte della Taranta 2006 (Parco della Musica Records, 2006)

Fermarono i Cieli (Finisterre, 2006)

La Chiarastella – Live at Auditorium Parco della Musica 2008 (Parco della Musica Records/EGEA, 2008)

Vola vola vola (Parco della Musica Records, 2012)

Aska kalèddhamu (Alzati bella mia) (Finisterre/Felmay, 2012)

Ambrogio Sparagna – Stories 1986-2016 (Finisterre, 2016)

Tra Anguille e Tarante – Canti e storie dal Delta del Po (Finisterre, 2020)

La Bella Poesia (Finisterre, 2020)

Miserere (Finisterre, 2021)

Il Dante Cantato (Finisterre, 2021)

La Musica del Presepe (Finisterre, 2022)

Anemo (Finisterre, 2023)

 

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