La Canzone di Zeza e il carnevale degli Zezi di Pomigliano d’Arco

246

ZeziLa Canzone di Zeza è una forma di lamento ritualizzato attraverso il quale si celebra la morte di Carnevale.

È una commedia popolare, messa in scena, fino alla metà degli anni Cinquanta, da gruppi di attori improvvisati: si sviluppa sul contrasto, interamente cantato, tra un uomo e una donna, tra il vecchio e il nuovo, in un conflitto intergenerazionale in cui si celebra la sconfitta per castrazione di Pulcinella, il quale, invano contro sua moglie Zeza, si oppone al matrimonio della figlia Vicenzella con Don Nicola.

Fin dall’inizio della sua carriera, nel 1974, il gruppo operaio E Zezi di Pomigliano d’Arco, ha lavorato sulla Canzone di Zeza, rielaborandola e proponendola anche al di fuori del periodo di carnevale. Con la Canzone di Zeza – come del resto con molti repertori riproposti dagli Zezi negli anni – l’intento è stato sempre di rifondare un momento di collettivizzazione, uno spazio di socialità straordinaria, dentro il quale porre il problema del significato interno, della struttura, del rituale, ma con differente intensità. I suoi riflessi sono più che mai attuali, sia sul piano culturale che politico.

Quest’anno, nei giorni di carnevale, gli Zezi hanno rappresentato la commedia nelle strade e nelle masserie di Pomigliano, e nei vicoli del centro storico di Napoli, incontrando grande partecipazione e entusiasmo.

Chi scrive, con un’equipe di ricercatori e operatori dell’associazione ControSguardi e dell’Università degli Studi di Perugia, ha seguito tutti gli spettacoli. In queste righe convergono alcune brevi riflessioni su quell’esperienza.

 

Ho seguito la roboante compagnia del gruppo operaio – che cantava per vicoli e piazze la Canzone dove si racconta il dramma di tutti i tempi, specchiati nel Pulcinella castrato dal futuro genero ‘ro Nicola e osteggiato dalla sua famiglia, la figlia Vicenziella e la moglie Zeza – con il solito disagio che mi morde quando raggiungo il gruppo operaio.

Un disagio che è la trasfigurazione della meraviglia, della stupefazione di chi si incanta davanti a una fermezza che gela gli occhi e incrina la statica delle definizioni: ma che tradizione? La dinamica si svolge tutta adesso – la lotta, ma anche il racconto, la rappresentazione – e la prospettiva che si apre prende forma dalle bocche degli Zezi e si annoda attorno a quelli che guardano e che passano. Non ci sono proroghe. Non entrano negli angoli scheggiati di questo spettacolo lacerante. Figuriamoci nostalgie e speranze retoriche: siamo a Napoli, a Pomigliano, nei vicoli, nelle piazze, negli androni, a ridosso dei ruderi (urbani) delle masserie. Siamo a solcare gli spazi contratti e marginali, reinventati con ferocia nelle periferie arse, dove si affacciano terrazze vuote e muri incrinati da scritte illeggibili.

Siamo davanti e dentro la Canzone di Zeza, a braccetto con gli Zezi che strillano – girando vorticosi su sé stessi e abbagliandoci di riflessi – i fasti di una tradizione carnevalesca da cui hanno tirato fuori il nervo vivo. E dalla quale prendono forma le nuove contraddizioni che gli Zezi abbracciano, come sempre, per spezzare la linea di una coerenza falsa e assordante.

Contro la coerenza politica – nella misura in cui l’amministrazione delle risorse non prevede neanche gli avanzi dei beni pubblici e comuni per i pulcinelli. Contro la coerenza (a)sociale – nella misura in cui i ‘ro nicoli proclamano e stracciano, sparano e invalidano, delegittimano, storpiano e isolano il dissenso. Contro la coerenza nel costume. Un costume dominato dall’aspettativa, sulla quale si ordina la vita intera, vissuta (e non solo immaginata) sulle punte e col collo avanti a sperare (anche solo) di vedere qualcuno che arrivi a salvarci (il principe azzurro, il governo tecnico, la Quaresima). Contro questa nuova forma di coerenza che calibra e misura le aspettative in base alla disposizione a subire e a posizionarsi nella nefasta zona grigia (sono così ma vorrei essere cosà, sto qui ma…) – nella misura in cui le zeze e le vicenzielle addentano l’amo di una condizione (pubblica) agognata. E per questo abbaglio, che lascia solo scintille sterili, amputano la sfera delle relazioni concrete, dei vincoli di base. Amputazioni che creano disorientamento: e si sa, chi è disorientato va guidato, accudito (ed è facile farlo), che vuol dire anche governato, perché è in una condizione di bisogno.

Nella Canzone di Zeza gli Zezi stracciano questo incastro e questo finto scalpore. E il loro carnevale amplifica la loro propensione – ormai collaudata dentro un movimento e una tattica fuori dalle convergenze e dai compromessi – a ribaltare gli allineamenti, a riavvolgere il fascio indurito delle norme, fino a trovarne un bandolo da cui ripartire, tra i brandelli informi di una nuova scena, dove ogni elemento si ricompone con un nuovo disincantato significato.