Mario Biondi, black soul made in Italy

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Mario BiondiHa un vocione black da cantante d’oltreoceano, ma in realtà è italianissimo. Canta in inglese, ma è nato e cresciuto in Sicilia (e parmense d’adozione).
Lui è Mario Biondi 37 anni e oltre 20 di gavetta culminati nel 2006 con il successo della sua opera prima Handful of Soul, incisa con il gruppo High Five Quintet. Padre di cinque figli, non chiedetegli che progetti ha per il futuro: vi sorprenderà per la semplicità della sua risposta.

La prima domanda è quasi d’obbligo. Come stai vivendo questa tua grande popolarità?

È un momento molto bello, pieno di lavoro e tante soddisfazioni. In più qualche mese fa sono diventato papà, per la quinta volta. Un anno che non dimenticherò mai.

In Italia sei sicuramente la presenza musicale più originale degli ultimi anni. Quello che conosciamo è sempre stato il tuo stile?

Ho sempre apprezzato i grandi cantanti ed i jazzisti d’oltreoceano. Uno dei miei miti assoluti è Al Jarreau. Ho sempre interpretato questo stile, il soul, pur non disdegnando affatto la musica leggera italiana.

Quanto è stata importante l’esperienza maturata come turnista e quanto ha influito nel tuo modo di vivere la musica oggi?

Praticamente canto da sempre, per cui la mia gavetta, se vogliamo è stata molto naturale. Oggi mi sento molto sicuro sul palco, di sicuro perchè già da giovanissimo mi trovavo di fronte al pubblico, senza sapere cosa dire. Dovevo solo cantare. E cantavo.

È stato importante prendere confidenza con il palco e con il pubblico così presto?

È stato fondamentale, se ci ripenso adesso, mi viene da ridere. Mi tremavano le gambe…

Più volte hai dichiarato che, in qualche modo, ti senti un figlio d’arte. Cosa hai imparato dalla tua famiglia e soprattutto da tuo padre, al quale dedichi il tuo lavoro?

Devo tutto alla mia famiglia, e soprattutto a mio padre che mi ha sempre trasmesso l’amore per la musica e per il lavoro in generale.

Arriviamo alla genesi del tuo successo. Il singolo What you are inizialmente è stato promosso con il titolo Was-a-Be per paura di un flop commerciale. Poi come è andata?

Il singolo è prima stato pubblicato in Inghilterra, ha iniziato a girare sulla Bbc Radio1; a quel punto la Schema ha ben progettato un intero album per il mercato italiano, ma non solo, da pubblicare però con il mio nome. Da lì sono partite le radio italiane, ed il disco è scoppiato.

Il successo è arrivato nel 2004 col singolo What you are seguito nel 2006 dall’album Handful of Soul. Però tu hai iniziato a cantare e a fare concerti già da ragazzino.

Purtroppo non potrò mai ringraziarlo, ma vorrei che mio padre vedesse a cosa è servito buttarmi sul palco molto giovane. Avevo circa 15 anni, il palco era quello del Tout Va, un posto che allora ospitava anche artisti del calibro di Ray Charles.

Ad accompagnarti ci sono due formazioni, gli High Five e la Duke Orchestra. Vuoi presentarle ai nostri lettori?

Gli High Five sono stati contattati per la prima volta da Luciano Cantone, e sono i miei fedeli compagni di scorribande musicali. Li ho incontrati per la registrazione del disco, è scattato un feeling molto profondo e li ho convinti, essendo tutti molto impegnati anche con altri artisti, a venire in tour con me. La Duke Orchestra invece è un’idea di Antonio Germinario, il mio manager, è una grande orchestra come quelle di una volta. Fiati, archi, percussioni, persino l’arpa. C’è tutto.

“Non mi dedicherò al momento a brani italiani per me almeno per un paio d’anni”. Come mai questa scelta?

Non so dove lo hai letto ma la mia non è una scelta precisa. Io amo la musica italiana, ma devo continuare a rispettare coloro che mi hanno conosciuto grazie alla musica straniera. Sicuramente, prima o poi, arriverà anche quel momento.

I Radiohead hanno deciso di staccarsi dalla EMI promuovendo il loro ultimo album direttamente in rete. Tu hai ottenuto prima il disco d’oro e poi il doppio disco di platino lavorando con la Schema Records, molto apprezzata ma non certo una major. Cosa significa questo secondo te?

Mah…le due cose non le vedo concatenate in realtà. I Radiohead hanno promosso il disco in rete, ma non si sono fatti conoscere grazie alla rete, caso mai l’hanno sfruttata una volta famosi. La Schema Records è forse l’unica label indipendente italiana, molto competente musicalmente, che ha sempre creduto in me e mi ha portato al successo, completamente dal nulla. Probabilmente la rete può essere un’alternativa per chi è già famoso.

Tra l’altro quest’anno hai pubblicato un singolo (non presente nell’album Handful of soul) intitolato No Matter, in collaborazione con il DJ Mario Fargetta. Singolare come collaborazione.

Neanche tanto singolare. Conosco Fargetta da anni, sono stato turnista in studio per tantissimi artisti. Avevamo registrato questo disco tanti anni fa, non è mai stato pubblicato, sino all’anno scorso.

È da poco uscito il doppio album live I love you more con la Duke Orchestra. Hai duettato con Ornella Vanoni nel brano Cosa m’importa. Quali altri progetti hai per il futuro?

Cantare, cantare, cantare.