“Ai minimi termini” – Minimal Art/Minimal Music (2° parte)

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“AI MINIMI TERMINI”
Minimal Art/Minimal Music
(seconda parte)

 

L’esperienza dei musicisti minimalisti incrocia quella di Philip Glass, che, già forte di una rigorosa formazione accademica, aveva appreso da Ravi Shankar una diversa nozione del ritmo basata sulla successione di piccole unità. Ai minimi termini - minimal art minimal music (seconda parte - Philip Glass)Il suo approdo deciso alla «musica ripetitiva» avviene, però, solamente nel 1970, con Music With Changing Parts e con Music in Twelve Parts (1974). Nel 1976, esordisce in teatro con Einstein on the Beach, ideato e diretto da Robert Wilson, con la coreografia di Lucinda Childs, commissionato dal Festival di Avignone. Si tratta di una lunga (circa cinque ore, senza intervallo) rappresentazione metaforica della figura di Albert Einstein, nella quale l’organico musicale prevede un coro da camera, soli (soprani e tenori) e ensemble (fiati, tastiere e violini). Le strutture ricorrenti e ripetitive, nelle quali vengono gradualmente introdotti processi di trasformazione ritmica o di altra natura, che consentono a una figura musicale di mantenere la sua linea melodica pur cambiando forma ritmica, sono di carattere pienamente minimalista. Glass, nonostante l’adesione tarda, è il più noto tra i musicisti minimalisti, come Sol LeWitt lo è, probabilmente, tra quelli dediti alle arti visive. Ai minimi termini - minimal art minimal music (seconda parte - Sol LeWitt)Tuttavia, non vanno dimenticati, accanto a quest’ultimo, Donald Judd, Carl Andre, Dan Flavin e Robert Morris per la scultura; Frank Stella, Agnes Martin, Robert Ryman, Brice Marden, Jo Baer, Richard Tuttle e Robert Mangold per la pittura. Se è vero che il nome collettivo e i postulati di un gruppo emergente di giovani artisti, come si diceva nella prima parte di questo articolo[1], sono, in genere, donati loro da un critico o da un filosofo (in questo caso Richard Wollheim, nel 1965), «tradizione» vuole, anche, che quel gruppo li rifiuti o non vi si riconosca del tutto, desiderando, ciascuno, sottolineare la propria individualità. Ai minimi termini - minimal art minimal music (seconda parte - Richard Wollheim)È, pure, il caso dei nostri giovani americani. Sul fronte musicale, nel 1988, in un’acuta intervista di Pierluigi Castellano, alla domanda su che cosa pensi dei suoi colleghi minimalisti, Terry Riley dichiara: “Devo dire che francamente non sono molto informato sulla loro musica… Non ho ascoltato i loro brani più recenti e il mio giudizio quindi non può essere troppo corretto. Ma sinceramente non sono troppo interessato a questa scuola: è già in crisi pur essendo così giovane…”[2]. Ai minimi termini - minimal art minimal music (seconda parte - Terry Riley)E, alla domanda successiva dell’intervistatore, che gli chiede se non ritenga che alcuni di quegli autori “abbiano utilizzato le intuizioni del minimalismo storico (e quindi anche le sue), rendendole più facili e magari più commerciali”, Riley risponde: “Penso proprio che l’abbiano fatto e credo anche che abbiano molto beneficiato del mio lavoro, soprattutto di In C: lì avevo già elaborato e sviluppato tutto quello che questi signori hanno in seguito scoperto! Non c’era molto lavoro creativo da fare, se non riproporre quelle intuizioni e realizzare nuovi brani per lo stesso tipo di musica… Vari artisti hanno attinto molto dal mio lavoro e lo hanno reso molto più commerciale!”[3]. Ai minimi termini - minimal art minimal music (seconda parte - Terry Riley In C)Ciononostante, questi musicisti, come i pittori e gli scultori di cui sopra, passeranno alla storia come minimalisti. Perché, al di là delle peculiarità e della competitività espressa dai singoli, è molto evidente ciò che accomuna i loro lavori, soprattutto – e qui torniamo nel campo delle arti visive – in quelli di genere plastico: ampi volumi geometrici; strutture basilari di forma cubica, rettangolare o analoghe; elementi uniformi ordinati in sequenze seriali; materiali di tipo industriale; installazioni in diretto rapporto con lo spazio espositivo, che, così, diventa componente dell’opera. La pittura minimalista, generalmente, si manifesta all’interno di confini che le sono più propri, ma il rapporto con lo spazio si manifesta, in maniera indissolubile, nei Wall Drawings, letteralmente illustrazioni murali, che dilagano sulle pareti di edifici privati, pubblici e gallerie a partire dal 1968, ad opera di Sol LeWitt: “Volevo fare un lavoro artistico il più bidimensionale possibile […]” – scrive l’artista – “Il disegno è realizzato con leggerezza, usando graffite dura, in modo tale che le linee diventino, il più possibile, una parte della superficie del muro, dal punto di vista visivo […] Quando i disegni sono colorati, è preferibile un muro piatto e bianco. I colori usati sono il giallo, rosso, blu e nero, i colori usati nella stampa tipografica…”[4] Ai minimi termini - minimal art minimal music (seconda parte - Wall Drawings di Sol LeWitt)È proprio allora, che LeWitt inizia a sostenere che l’idea sia la componente fondamentale della propria arte, e che l’esecuzione (nonché l’opera stessa) costituiscano elementi del tutto secondari. Tanto che affida la realizzazione dei Wall Drawings (e non solo di essi) ai propri collaboratori: “Nell’arte concettuale l’idea o concetto è l’aspetto più importante dell’opera […] tutta la pianificazione e le decisioni sono prese in anticipo e l’esecuzione è una faccenda sommaria”[5]. Ed è proprio da allora, e per questa ragione, che il lavoro di LeWitt può essere letto sia in chiave minimalista, sia, allo stesso tempo, in chiave concettuale. Per far meglio intendere il proprio pensiero, LeWitt si serve dell’esempio della musica, che, quando è udita dagli ascoltatori, è «solamente» il risultato finale di un processo, che prevede, precedentemente, la sua ideazione e la conseguente trascrizione in segni sul pentagramma. Quei segni esistono solo per essere letti dai musicisti, gli esecutori, che li comprendono e li utilizzano così come indicato sulla partitura. Il pubblico, invece, “ascolterà la musica che nasce dall’esecuzione, ma sarà all’oscuro delle unità minime che la sovrintendono, così come delle modalità del loro armonico relazionarsi le une con le altre”. Con LeWitt, la comparazione della partitura musicale all’idea/descrizione dell’opera d’arte diviene uno dei capisaldi più manifesti dell’arte concettuale. Mentre alcuni suoi colleghi (Lawrence Weiner, per esempio) sviluppano, però, le proprie descrizioni verbali come se fossero opere d’arte autonome da poter esibire sulle pareti di una galleria senza che debbano – o possano – necessariamente essere eseguite, le idee di LeWitt sono destinate ad essere realizzate piuttosto che contemplate[6]. Sol LeWitt è anche un grande fruitore di musica, la sua è una vera passione, declinata in una sorta di collezionismo compulsivo: “Sono stato negli studi di artisti dove ci sono pareti di dischi o CD, ma l’ossessività e la natura enciclopedica di tutto ciò lo porta [Sol LeWitt, n.d.r] in una diversa categoria di interesse”[7], scrive Richard Klein, che su questo aspetto ha ideato la mostra Sol LeWitt: The Music Collection presso l’Aldrich Contemporary Art Museum di Ridgefield (Connecticut, U.S.A.). Ai minimi termini - minimal art minimal music (seconda parte - Sol LeWitt The Music Collection)
La relazione tra il minimalismo visivo e quello sonoro è reso evidente anche dall’interesse che un gallerista romano della fama e della competenza di Fabio Sargentini dedica, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, ai musicisti minimalisti. Ai minimi termini - minimal art minimal music (seconda parte - Fabio Sargentini)Sargentini mette a disposizione di Riley, Glass, Young e Reich, nonché di esponenti della nuova danza (Trisha Brown e Yvonne Rainer) la sua galleria d’arte L’Attico per vivere e lavorare: “Gli artisti che lui presentò erano artisti che già si conoscevano molto bene e che erano abituati a collaborare tra loro Ai minimi termini - minimal art minimal music (seconda parte - Trisha Brown)a New York…” – racconta Philip Glass – “La forza di questo lavoro romano era che mostrava come tutti questi artisti coinvolti potevano reagire reciprocamente: non c’era un singolo compositore o un singolo coreografo, ma si trattava quasi di un’intera generazione di danzatori e musicisti che lavoravano insieme! Sargentini è stato il primo in Europa a intuire l’importanza di questo movimento e l’importanza delle interazioni tra questi artisti”[8].
Concludendo, possiamo affermare che la musica, la scultura, la pittura – e la danza – minimaliste hanno acquisito valore estetico anche per mezzo delle loro interrelazioni, rappresentando un potente rinnovamento nei linguaggi dell’arte contemporanea.

 

NOTE

[1]Cfr. https://www.strumentiemusica.com/notizie/ai-minimi-termini-minimal-artminimal-music-1-parte/
[2]Pierluigi Castellano, Le sorgenti del suono. Trenta incontri con musicisti straordinari, Roma, Derive Approdi, 2004, p. 17.
[3]Ibidem, pp. 17-18.
[4]Sol LeWitt, “On Wall Drawings, in Documentation, Conceptual Art: Weiner, Buren, Bochner, LeWitt”, in Arts Magazine, aprile, 1970.
[5]Sol LeWitt: “Paragraphs on Conceptual Art”, in Artforum, numero estivo, 1967.
[6]http://radicalart.info/concept/scores.html.
[7]https://www.wsj.com/articles/celebrating-the-minimalist8217s-music-1386991977.
[8]P. Castellano, Op. cit., p. 66.

 

 

PER APPROFONDIRE

BIBLIOGRAFIA

ASSANTE, Ernesto, CASTALDO, Gino, Blues, Jazz, Rock, Pop. Il Novecento americano, Torino, Einaudi, 2004.

CARRERA, Alessandro, Filosofia del minimalismo. La musica e il piacere della ripetizione, Monza, Casa Musicale Eco, 2018.

DEL PUPPO, Alessandro, L’arte contemporanea. Il secondo Novecento, Torino, Einaudi, 2013.

GENTILUCCI, Armando, Guida all’ascolto della musica contemporanea. Dalle prime avanguardie alla nuova musica, Milano, Feltrinelli, 1978.

MACHLIS, Joseph, Introduzione alla musica contemporanea, vol. II, Firenze, Sansoni, 1984.

RIGOLLI, Alessandro, Philip Glass. L’opera, tra musica e immagine, Milano, Auditorium, 2003.

SYLVESTER, Davide, Interviste con artisti americani, Roma, Castelvecchi, 2012.

 

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